mercoledì 31 dicembre 2008

COMBATTERE LA POVERTÀ, COSTRUIRE LA PACE.

MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ
BENEDETTO XVI
PER LA CELEBRAZIONE DELLA
GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
1° GENNAIO 2009
(Tratto dal sito www.vatican.va)
1. Anche all'inizio di questo nuovo anno desidero far giungere a tutti il mio augurio di pace ed invitare, con questo mio Messaggio, a riflettere sul tema: Combattere la povertà, costruire la pace. Già il mio venerato predecessore Giovanni Paolo II, nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1993, aveva sottolineato le ripercussioni negative che la situazione di povertà di intere popolazioni finisce per avere sulla pace. Di fatto, la povertà risulta sovente tra i fattori che favoriscono o aggravano i conflitti, anche armati. A loro volta, questi ultimi alimentano tragiche situazioni di povertà. « S'afferma... e diventa sempre più grave nel mondo – scriveva Giovanni Paolo II – un'altra seria minaccia per la pace: molte persone, anzi, intere popolazioni vivono oggi in condizioni di estrema povertà. La disparità tra ricchi e poveri s'è fatta più evidente, anche nelle nazioni economicamente più sviluppate. Si tratta di un problema che s'impone alla coscienza dell'umanità, giacché le condizioni in cui versa un gran numero di persone sono tali da offenderne la nativa dignità e da compromettere, conseguentemente, l'autentico ed armonico progresso della comunità mondiale ».
2. In questo contesto, combattere la povertà implica un'attenta considerazione del complesso fenomeno della globalizzazione. Tale considerazione è importante già dal punto di vista metodologico, perché suggerisce di utilizzare il frutto delle ricerche condotte dagli economisti e sociologi su tanti aspetti della povertà. Il richiamo alla globalizzazione dovrebbe, però, rivestire anche un significato spirituale e morale, sollecitando a guardare ai poveri nella consapevole prospettiva di essere tutti partecipi di un unico progetto divino, quello della vocazione a costituire un'unica famiglia in cui tutti – individui, popoli e nazioni – regolino i loro comportamenti improntandoli ai principi di fraternità e di responsabilità.
In tale prospettiva occorre avere, della povertà, una visione ampia ed articolata. Se la povertà fosse solo materiale, le scienze sociali che ci aiutano a misurare i fenomeni sulla base di dati di tipo soprattutto quantitativo, sarebbero sufficienti ad illuminarne le principali caratteristiche. Sappiamo, però, che esistono povertà immateriali, che non sono diretta e automatica conseguenza di carenze materiali. Ad esempio, nelle società ricche e progredite esistono fenomeni di emarginazione, povertà relazionale, morale e spirituale: si tratta di persone interiormente disorientate, che vivono diverse forme di disagio nonostante il benessere economico. Penso, da una parte, a quello che viene chiamato il « sottosviluppo morale » e, dall'altra, alle conseguenze negative del « supersviluppo ». Non dimentico poi che, nelle società cosiddette « povere », la crescita economica è spesso frenata da impedimenti culturali, che non consentono un adeguato utilizzo delle risorse. Resta comunque vero che ogni forma di povertà imposta ha alla propria radice il mancato rispetto della trascendente dignità della persona umana. Quando l'uomo non viene considerato nell'integralità della sua vocazione e non si rispettano le esigenze di una vera « ecologia umana », si scatenano anche le dinamiche perverse della povertà, com'è evidente in alcuni ambiti sui quali soffermerò brevemente la mia attenzione.
Povertà e implicazioni morali
3. La povertà viene spesso correlata, come a propria causa, allo sviluppo demografico. In conseguenza di ciò, sono in atto campagne di riduzione delle nascite, condotte a livello internazionale, anche con metodi non rispettosi né della dignità della donna né del diritto dei coniugi a scegliere responsabilmente il numero dei figli e spesso, cosa anche più grave, non rispettosi neppure del diritto alla vita. Lo sterminio di milioni di bambini non nati, in nome della lotta alla povertà, costituisce in realtà l'eliminazione dei più poveri tra gli esseri umani. A fronte di ciò resta il fatto che, nel 1981, circa il 40% della popolazione mondiale era al di sotto della linea di povertà assoluta, mentre oggi tale percentuale è sostanzialmente dimezzata, e sono uscite dalla povertà popolazioni caratterizzate, peraltro, da un notevole incremento demografico. Il dato ora rilevato pone in evidenza che le risorse per risolvere il problema della povertà ci sarebbero, anche in presenza di una crescita della popolazione. Né va dimenticato che, dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, la popolazione sulla terra è cresciuta di quattro miliardi e, in larga misura, tale fenomeno riguarda Paesi che di recente si sono affacciati sulla scena internazionale come nuove potenze economiche e hanno conosciuto un rapido sviluppo proprio grazie all'elevato numero dei loro abitanti. Inoltre, tra le Nazioni maggiormente sviluppate quelle con gli indici di natalità maggiori godono di migliori potenzialità di sviluppo. In altri termini, la popolazione sta confermandosi come una ricchezza e non come un fattore di povertà.
4. Un altro ambito di preoccupazione sono le malattie pandemiche quali, ad esempio, la malaria, la tubercolosi e l'AIDS, che, nella misura in cui colpiscono i settori produttivi della popolazione, influiscono grandemente sul peggioramento delle condizioni generali del Paese. I tentativi di frenare le conseguenze di queste malattie sulla popolazione non sempre raggiungono risultati significativi. Capita, inoltre, che i Paesi vittime di alcune di tali pandemie, per farvi fronte, debbano subire i ricatti di chi condiziona gli aiuti economici all'attuazione di politiche contrarie alla vita. È soprattutto difficile combattere l'AIDS, drammatica causa di povertà, se non si affrontano le problematiche morali con cui la diffusione del virus è collegata. Occorre innanzitutto farsi carico di campagne che educhino specialmente i giovani a una sessualità pienamente rispondente alla dignità della persona; iniziative poste in atto in tal senso hanno gia dato frutti significativi, facendo diminuire la diffusione dell'AIDS. Occorre poi mettere a disposizione anche dei popoli poveri le medicine e le cure necessarie; ciò suppone una decisa promozione della ricerca medica e delle innovazioni terapeutiche nonché, quando sia necessario, un'applicazione flessibile delle regole internazionali di protezione della proprietà intellettuale, così da garantire a tutti le cure sanitarie di base.
6. Un quarto ambito che, dal punto di vista morale, merita particolare attenzione è la relazione esistente tra disarmo e sviluppo. Suscita preoccupazione l'attuale livello globale di spesa militare. Come ho già avuto modo di sottolineare, capita che « le ingenti risorse materiali e umane impiegate per le spese militari e per gli armamenti vengono di fatto distolte dai progetti di sviluppo dei popoli, specialmente di quelli più poveri e bisognosi di aiuto. E questo va contro quanto afferma la stessa Carta delle Nazioni Unite, che impegna la comunità internazionale, e gli Stati in particolare, a “promuovere lo stabilimento ed il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale col minimo dispendio delle risorse umane ed economiche mondiali per gli armamenti” (art. 26) ».
Questo stato di cose non facilita, anzi ostacola seriamente il raggiungimento dei grandi obiettivi di sviluppo della comunità internazionale. Inoltre, un eccessivo accrescimento della spesa militare rischia di accelerare una corsa agli armamenti che provoca sacche di sottosviluppo e di disperazione, trasformandosi così paradossalmente in fattore di instabilità, di tensione e di conflitti. Come ha sapientemente affermato il mio venerato Predecessore Paolo VI, « lo sviluppo è il nuovo nome della pace ». Gli Stati sono pertanto chiamati ad una seria riflessione sulle più profonde ragioni dei conflitti, spesso accesi dall'ingiustizia, e a provvedervi con una coraggiosa autocritica. Se si giungerà ad un miglioramento dei rapporti, ciò dovrebbe consentire una riduzione delle spese per gli armamenti. Le risorse risparmiate potranno essere destinate a progetti di sviluppo delle persone e dei popoli più poveri e bisognosi: l'impegno profuso in tal senso è un impegno per la pace all'interno della famiglia umana.
7. Un quinto ambito relativo alla lotta alla povertà materiale riguarda l'attuale crisi alimentare, che mette a repentaglio il soddisfacimento dei bisogni di base. Tale crisi è caratterizzata non tanto da insufficienza di cibo, quanto da difficoltà di accesso ad esso e da fenomeni speculativi e quindi da carenza di un assetto di istituzioni politiche ed economiche in grado di fronteggiare le necessità e le emergenze. La malnutrizione può anche provocare gravi danni psicofisici alle popolazioni, privando molte persone delle energie necessarie per uscire, senza speciali aiuti, dalla loro situazione di povertà. E questo contribuisce ad allargare la forbice delle disuguaglianze, provocando reazioni che rischiano di diventare violente. I dati sull'andamento della povertà relativa negli ultimi decenni indicano tutti un aumento del divario tra ricchi e poveri. Cause principali di tale fenomeno sono senza dubbio, da una parte, il cambiamento tecnologico, i cui benefici si concentrano nella fascia più alta della distribuzione del reddito e, dall'altra, la dinamica dei prezzi dei prodotti industriali, che crescono molto più velocemente dei prezzi dei prodotti agricoli e delle materie prime in possesso dei Paesi più poveri. Capita così che la maggior parte della popolazione dei Paesi più poveri soffra di una doppia marginalizzazione, in termini sia di redditi più bassi sia di prezzi più alti.
Lotta alla povertà e solidarietà globale
8. Una delle strade maestre per costruire la pace è una globalizzazione finalizzata agli interessi della grande famiglia umana. Per governare la globalizzazione occorre però una forte solidarietà globale tra Paesi ricchi e Paesi poveri, nonché all'interno dei singoli Paesi, anche se ricchi. È necessario un « codice etico comune », le cui norme non abbiano solo un carattere convenzionale, ma siano radicate nella legge naturale inscritta dal Creatore nella coscienza di ogni essere umano (cfr Rm 2,14-15). Non avverte forse ciascuno di noi nell'intimo della coscienza l'appello a recare il proprio contributo al bene comune e alla pace sociale? La globalizzazione elimina certe barriere, ma ciò non significa che non ne possa costruire di nuove; avvicina i popoli, ma la vicinanza spaziale e temporale non crea di per sé le condizioni per una vera comunione e un'autentica pace. La marginalizzazione dei poveri del pianeta può trovare validi strumenti di riscatto nella globalizzazione solo se ogni uomo si sentirà personalmente ferito dalle ingiustizie esistenti nel mondo e dalle violazioni dei diritti umani ad esse connesse. La Chiesa, che è « segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano », continuerà ad offrire il suo contributo affinché siano superate le ingiustizie e le incomprensioni e si giunga a costruire un mondo più pacifico e solidale.
9. Nel campo del commercio internazionale e delle transazioni finanziarie, sono oggi in atto processi che permettono di integrare positivamente le economie, contribuendo al miglioramento delle condizioni generali; ma ci sono anche processi di senso opposto, che dividono e marginalizzano i popoli, creando pericolose premesse per guerre e conflitti. Nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, il commercio internazionale di beni e di servizi è cresciuto in modo straordinariamente rapido, con un dinamismo senza precedenti nella storia. Gran parte del commercio mondiale ha interessato i Paesi di antica industrializzazione, con la significativa aggiunta di molti Paesi emergenti, diventati rilevanti. Ci sono però altri Paesi a basso reddito, che risultano ancora gravemente marginalizzati rispetto ai flussi commerciali. La loro crescita ha risentito negativamente del rapido declino, registrato negli ultimi decenni, dei prezzi dei prodotti primari, che costituiscono la quasi totalità delle loro esportazioni. In questi Paesi, per la gran parte africani, la dipendenza dalle esportazioni di prodotti primari continua a costituire un potente fattore di rischio. Vorrei qui rinnovare un appello perché tutti i Paesi abbiano le stesse possibilità di accesso al mercato mondiale, evitando esclusioni e marginalizzazioni.
10. Una riflessione simile può essere fatta per la finanza, che concerne uno degli aspetti primari del fenomeno della globalizzazione, grazie allo sviluppo dell'elettronica e alle politiche di liberalizzazione dei flussi di denaro tra i diversi Paesi. La funzione oggettivamente più importante della finanza, quella cioè di sostenere nel lungo termine la possibilità di investimenti e quindi di sviluppo, si dimostra oggi quanto mai fragile: essa subisce i contraccolpi negativi di un sistema di scambi finanziari – a livello nazionale e globale - basati su una logica di brevissimo termine, che persegue l'incremento del valore delle attività finanziarie e si concentra nella gestione tecnica delle diverse forme di rischio. Anche la recente crisi dimostra come l'attività finanziaria sia a volte guidata da logiche puramente autoreferenziali e prive della considerazione, a lungo termine, del bene comune. L'appiattimento degli obiettivi degli operatori finanziari globali sul brevissimo termine riduce la capacità della finanza di svolgere la sua funzione di ponte tra il presente e il futuro, a sostegno della creazione di nuove opportunità di produzione e di lavoro nel lungo periodo. Una finanza appiattita sul breve e brevissimo termine diviene pericolosa per tutti, anche per chi riesce a beneficiarne durante le fasi di euforia finanziaria.
11. Da tutto ciò emerge che la lotta alla povertà richiede una cooperazione sia sul piano economico che su quello giuridico che permetta alla comunità internazionale e in particolare ai Paesi poveri di individuare ed attuare soluzioni coordinate per affrontare i suddetti problemi realizzando un efficace quadro giuridico per l'economia. Richiede inoltre incentivi alla creazione di istituzioni efficienti e partecipate, come pure sostegni per lottare contro la criminalità e per promuovere una cultura della legalità. D'altra parte, non si può negare che le politiche marcatamente assistenzialiste siano all'origine di molti fallimenti nell'aiuto ai Paesi poveri. Investire nella formazione delle persone e sviluppare in modo integrato una specifica cultura dell'iniziativa sembra attualmente il vero progetto a medio e lungo termine. Se le attività economiche hanno bisogno, per svilupparsi, di un contesto favorevole, ciò non significa che l'attenzione debba essere distolta dai problemi del reddito. Sebbene si sia opportunamente sottolineato che l'aumento del reddito pro capite non può costituire in assoluto il fine dell'azione politico-economica, non si deve però dimenticare che esso rappresenta uno strumento importante per raggiungere l'obiettivo della lotta alla fame e alla povertà assoluta. Da questo punto di vista va sgomberato il campo dall'illusione che una politica di pura ridistribuzione della ricchezza esistente possa risolvere il problema in maniera definitiva. In un'economia moderna, infatti, il valore della ricchezza dipende in misura determinante dalla capacità di creare reddito presente e futuro. La creazione di valore risulta perciò un vincolo ineludibile, di cui si deve tener conto se si vuole lottare contro la povertà materiale in modo efficace e duraturo.
12. Mettere i poveri al primo posto comporta, infine, che si riservi uno spazio adeguato a una corretta logica economica da parte degli attori del mercato internazionale, ad una corretta logica politica da parte degli attori istituzionali e ad una corretta logica partecipativa capace di valorizzare la società civile locale e internazionale. Gli stessi organismi internazionali riconoscono oggi la preziosità e il vantaggio delle iniziative economiche della società civile o delle amministrazioni locali per la promozione del riscatto e dell'inclusione nella società di quelle fasce della popolazione che sono spesso al di sotto della soglia di povertà estrema e sono al tempo stesso difficilmente raggiungibili dagli aiuti ufficiali. La storia dello sviluppo economico del XX secolo insegna che buone politiche di sviluppo sono affidate alla responsabilità degli uomini e alla creazione di positive sinergie tra mercati, società civile e Stati. In particolare, la società civile assume un ruolo cruciale in ogni processo di sviluppo, poiché lo sviluppo è essenzialmente un fenomeno culturale e la cultura nasce e si sviluppa nei luoghi del civile.
13. Come ebbe ad affermare il mio venerato Predecessore Giovanni Paolo II, la globalizzazione « si presenta con una spiccata caratteristica di ambivalenza » e quindi va governata con oculata saggezza. Rientra in questa forma di saggezza il tenere primariamente in conto le esigenze dei poveri della terra, superando lo scandalo della sproporzione esistente tra i problemi della povertà e le misure che gli uomini predispongono per affrontarli. La sproporzione è di ordine sia culturale e politico che spirituale e morale. Ci si arresta infatti spesso alle cause superficiali e strumentali della povertà, senza raggiungere quelle che albergano nel cuore umano, come l'avidità e la ristrettezza di orizzonti. I problemi dello sviluppo, degli aiuti e della cooperazione internazionale vengono affrontati talora senza un vero coinvolgimento delle persone, ma come questioni tecniche, che si esauriscono nella predisposizione di strutture, nella messa a punto di accordi tariffari, nello stanziamento di anonimi finanziamenti. La lotta alla povertà ha invece bisogno di uomini e donne che vivano in profondità la fraternità e siano capaci di accompagnare persone, famiglie e comunità in percorsi di autentico sviluppo umano.
Conclusione
14. Nell'Enciclica Centesimus annus, Giovanni Paolo II ammoniva circa la necessità di « abbandonare la mentalità che considera i poveri – persone e popoli – come un fardello e come fastidiosi importuni, che pretendono di consumare quanto altri hanno prodotto ». « I poveri – egli scriveva - chiedono il diritto di partecipare al godimento dei beni materiali e di mettere a frutto la loro capacità di lavoro, creando così un mondo più giusto e per tutti più prospero ». Nell'attuale mondo globale è sempre più evidente che si costruisce la pace solo se si assicura a tutti la possibilità di una crescita ragionevole: le distorsioni di sistemi ingiusti, infatti, prima o poi, presentano il conto a tutti. Solo la stoltezza può quindi indurre a costruire una casa dorata, ma con attorno il deserto o il degrado. La globalizzazione da sola è incapace di costruire la pace e, in molti casi, anzi, crea divisioni e conflitti. Essa rivela piuttosto un bisogno: quello di essere orientata verso un obiettivo di profonda solidarietà che miri al bene di ognuno e di tutti. In questo senso, la globalizzazione va vista come un'occasione propizia per realizzare qualcosa di importante nella lotta alla povertà e per mettere a disposizione della giustizia e della pace risorse finora impensabili.
15. Da sempre la dottrina sociale della Chiesa si è interessata dei poveri. Ai tempi dell'Enciclica Rerum novarum essi erano costituiti soprattutto dagli operai della nuova società industriale; nel magistero sociale di Pio XI, di Pio XII, di Giovanni XXIII, di Paolo VI e di Giovanni Paolo II sono state messe in luce nuove povertà man mano che l'orizzonte della questione sociale si allargava, fino ad assumere dimensioni mondiali. Questo allargamento della questione sociale alla globalità va considerato nel senso non solo di un'estensione quantitativa, ma anche di un approfondimento qualitativo sull'uomo e sui bisogni della famiglia umana. Per questo la Chiesa, mentre segue con attenzione gli attuali fenomeni della globalizzazione e la loro incidenza sulle povertà umane, indica i nuovi aspetti della questione sociale, non solo in estensione, ma anche in profondità, in quanto concernenti l'identità dell'uomo e il suo rapporto con Dio. Sono principi di dottrina sociale che tendono a chiarire i nessi tra povertà e globalizzazione e ad orientare l'azione verso la costruzione della pace. Tra questi principi è il caso di ricordare qui, in modo particolare, l'« amore preferenziale per i poveri », alla luce del primato della carità, testimoniato da tutta la tradizione cristiana, a cominciare da quella della Chiesa delle origini (cfr At 4,32-36; 1 Cor 16,1; 2 Cor 8-9; Gal 2,10).
«Ciascuno faccia la parte che gli spetta e non indugi», scriveva nel 1891 Leone XIII, aggiungendo: «Quanto alla Chiesa, essa non lascerà mancare mai e in nessun modo l'opera sua». Questa consapevolezza accompagna anche oggi l'azione della Chiesa verso i poveri, nei quali vede Cristo, sentendo risuonare costantemente nel suo cuore il mandato del Principe della pace agli Apostoli: «Vos date illis manducare – date loro voi stessi da mangiare» (Lc 9,13). Fedele a quest'invito del suo Signore, la Comunità cristiana non mancherà pertanto di assicurare all'intera famiglia umana il proprio sostegno negli slanci di solidarietà creativa non solo per elargire il superfluo, ma soprattutto per cambiare «gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società». Ad ogni discepolo di Cristo, come anche ad ogni persona di buona volontà, rivolgo pertanto all'inizio di un nuovo anno il caldo invito ad allargare il cuore verso le necessità dei poveri e a fare quanto è concretamente possibile per venire in loro soccorso. Resta infatti incontestabilmente vero l'assioma secondo cui «combattere la povertà è costruire la pace».
Dal Vaticano, 8 Dicembre 2008
BENEDICTUS PP. XVI

giovedì 18 dicembre 2008

Maria e Giovanni (di padre Valter Arrigoni)



“Egli fu annunziato da tutti i profeti, la Vergine Madre lo attese e lo portò in grembo con ineffabile amore, Giovanni proclamò la sua venuta e lo indicò presente nel mondo.” Così prega il Prefazio II dell’Avvento. Unisce le figure di Maria e di Giovanni il Battista. Così in queste ultime due domeniche prima del Natale ci troviamo a fermare lo sguardo della contemplazione, il respiro della preghiera, il fuoco dell’esame di coscienza alla luce della Parola che ci presenta queste due figure, questi due protagonisti del Natale. La terza domenica, sulla quale non abbiamo meditato insieme perché ero a Lourdes e da là vi ho scritto una lettera a cuore aperto, è chiamata “gaudete”,rallegratevi nel Signore che sta per venire. Paolo VI diceva in una udienza del mercoledì che ”un cristiano triste, che non è gioioso, non è un buon cristiano”. La gioia come criterio di giudizio, come metro per misurare la nostra fede. Ogni preghiera ebraica inizia dicendo: “Baruc atta Adonai ki”, “Sii benedetto, tu, o Signore, perché”. C’è un perché benedire il Signore Dio. Perché è buono, perché ha liberato il suo popolo, perché ha cura di ognuno di noi. Solo se c’è un perché benedire Dio allora c’è la possibilità della fede cioè c’è la possibilità di aderire, di credere, di trovare in Lui la vita, la gioia, la luce. E’ il Dio della gioia che annuncia la liberazione degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, che fascia i cuori feriti, così ci dice Isaia profeta. Paolo apostolo ai Tessalonicesi, ed oggi a noi ricorda che in Gesù possiamo pregare incessantemente, rendere grazie per ogni cosa,rallegrarci. Ma c’è una frase nell’annuncio del Battista che ha preso la mia attenzione e mi ha seguito nel meditare questo brano. “In mezzo a voi sta uno che non conoscete”. Conosciamo Gesù? Siamo cresciuti a scuola, sappiamo matematica, geometria, una o due lingue straniere, storia, filosofia … ma conosciamo Gesù? Nel credo che professiamo ogni domenica affermiamo che Gesù è:”unigenito Figlio del Padre, nato prima i tutti i secoli, Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero (perché questa ripetizione visto che lo abbiamo professato pochi secondi fa?, generato non creato (cosa significa?) della stessa sostanza (cosa è la sostanza?)…”. Eppure c’è una ignoranza di Gesù che perdona, che ci rivela il vero volto del Padre, che si china con compassione e misericordia, che riaccoglie nel cuore di Dio e della salvezza i ladri, i pubblicani, le prostitute. Gesù è la nostra gioia. Le nostre celebrazioni sono momenti e luoghi di gioia? Certe volte penso alla noia che provano i bambini ed i ragazzi a Messa. Li vedo distratti, annoiati, vogliosi di uscire e certo di non entrare. Giovanni dice che sta in mezzo a noi uni che non conosciamo. Sta in mezzo a noi non solo nella chiesa ma soprattutto nel mondo, nell’Europa cristiana, appena fuori dalle nostre chiese. Per molti, soprattutto giovani e bambini, D io non è la fonte della gioia ma il bastone fra le ruote per raggiungere la felicità. Sesso, droga, denaro, potere, vendetta, gioco sono cose che possono dare felicità e gioia alla mia carne, alla mia vita e Gesù le proibisce. A questa obiezione troppi credenti non sanno rispondere, o peggio, testimoniano il contrario. Giovanni e Maria esprimono la loro gioia nel Signore. Il salmo che abbiamo cantato domenica è il “Magnificat”, l’esultanza della Madonna. Cosa accomuna la Vergine e Giovanni? Questa domenica. Quarta di Avvento, l’ultima prima del Natale, ci viene offerta la figura di Maria. Vorrei sottolineare tre cose su cui meditare, tre similitudini fra Giovanni e Maria: quello che accade e li vede protagonisti accade fuori dal Tempio, dalle strutture ordinarie della vita religiosa; l’umiltà dei due; la solitudine dei due di fronte a Dio e di fronte a chi li circonda.
Giovanni annuncia la presenza del Messia in mezzo a noi “nel deserto”, “en to eremo”. Vive mangiando cavallette, vestito di pelle di cammello. Ha rinunciato a tutto per Dio. Solo nel deserto si diventa capaci di sentire la voce del sottile silenzio nella quale parla Dio (“qol demamah dakkah” come la chiama Elia). Giovanni è un profeta, vive nella libertà, vorrei dire nell’anarchia, la sua fede. Non è classificabile, non è riducibile ad uno stereotipo, come vorrebbero fare gli inviati dal Tempio che gli chiedono se lui è il Messia, Elia, il profeta atteso prima della venuta del Messia. Anche Maria vive il momento centrale della storia dell’umanità, quello che cambia radicalmente tutto, il mistero dell’Incarnazione, non nel Tempio ma in casa sua. Secondo la tradizione della Chiesa d’oriente, l’Annunciazione avviene in due momenti: il primo alla fonte dove la giovane si reca a prendere l’acqua. Lì le appare un angelo e lei presa da timore figge e si rinchiude in casa. Ma l’angelo le appare fra le mura domestiche ed avviene il dialogo fra Dio e la donna prescelta per essere madre del Figlio del Padre. Il miracolo della Immacolata concezione per il quale Maria è nata senza peccato originale, preparata per essere madre del Figlio, Tempio dello Spirito, sposa del Padre. Il miracolo affermato come dogma della Immacolata consiste nel fatto che per Maria l’effetto della passione, morte e risurrezione di Gesù avviene prima che Gesù sia morto in croce. Eppure questa eccezione rispetto agli altri uomini non le toglie la libertà per la quale poteva benissimo dire di no all’angelo che le pone la domanda da parte di Dio. Questo avvenimento fondamentale per la salvezza dell’umanità è stato annunciato ad una giovane donna, in un’umile casa palestinese. Gli atti più liberatori di energia per l’umanità non avvengono necessariamente sotto i riflettori ed al suono di fanfare. Non avvengono neppure nel Tempio. L’accadere di questi avvenimenti fuori dal Tempio, perché Dio non abita nel Tempio, è sottolineato dalla prima lettura nella quale ci viene presentato il re Davide che vuole costruire una casa per YHWH che gli risponde: “Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? Io ti ho preso dai pascoli … sono stato con te dovunque sei andato … il Signore ti farà grande poiché ti farà una casa”. Troviamo qui due accezioni del termine casa. Davide vuole costruire la casa di Dio, il Tempio ed invece Dio darà a Davide una casato, una discendenza, la casa reale di Giuda che vedrà molti secoli dopo come discendente Gesù, il re dei re della terra.
Le grandi opere di Dio non avvengono necessariamente nel Tempio, nel luogo dl culto organizzato, della religione, ma accadono nel cuore della persona. Ed ecco la seconda caratteristica che unisce Maria e Giovanni: l’umiltà. Maria lo canterà nel “Magnificat” dicendo “ha guardato l’umiltà della sua serva” e Giovanni proclama “uno che viene dopo di me, al quale io non sono degno di sciogliere il legaccio del sandalo”. Nella sua umiltà usa per descriversi anche l’immagine della voce rispetto alla parola. Ciò che dona senso e significato alla voce è la parola che la voce proclama e senza la quale sarebbe solo un suono disarticolato e senza senso. Gesù è la ragione della vita di Maria, l’umile ancella che compie la volontà di Dio, e di Giovanni. L’umile testimone, la voce che nel deserto dice la parola. Entrambi soli di fronte alla grandezza della domanda che viene posta loro da Dio. Ad una ragazza vergine di diventare madre, misteriosamente, miracolosamente ed al figlio del sacerdote Zaccaria di rinunciare ad una vita comoda e sicura per diventare un segno di contraddizione, fino a morire martire per amore della verità. La solitudine di fronte alla domanda, alla richiesta di Dio diventa anche la solitudine di fronte agli altri. Giuseppe vorrebbe ripudiare Maria, la fidanzata che attende un figlio da un altro. Maria è sola davanti a Giuseppe, ai suoi genitori, al suo paese, alla gente,sola con il suo immenso ed indicibile (non esistono parole umane per dire quello che è accaduto dentro di lei). Giovanni è solo davanti alla madre ed al padre che sognavano per lui un futuro ordinario, per bene. E’ solo davanti a coloro che lo vorrebbero inquadrare dentro lo schema, dentro una definizione. E’ solo davanti alla verità. Nel deserto. Libero. La verità è la sola condizione della libertà. Solo nella verità, nella libertà, nella solitudine è possibile incontrare Dio e rispondergli.
Verità, libertà, solitudine, umiltà come atteggiamenti per vivere il Natale, l’incontro con Gesù, il volto del Dio della gioia, della tenerezza, del perdono, della compassione, della misericordia. Il volto del Dio fatto uomo per amore degli uomini.
Mancano pochi giorni a Natale. Prepariamo il cuore, il modo di vivere, di vedere, di decidere, di giudicare, di essere. Imitiamo Maria e Giovanni.
Valter Arrigoni

lunedì 8 dicembre 2008

Immacolata Concezione della Vergine Maria

In Inghilterra e in Normandia già nel secolo XI si celebrava una festa della concezione di Maria; si commemorava l’avvenimento in se stesso, soffermandosi soprattutto sulle sue condizioni miracolose (sterilità di Anna, ecc.). Oltre questo aspetto aneddotico, sant’Anselmo mise in luce la vera grandezza del mistero che si attua nella concezione di Maria: la sua preservazione dal peccato.Nel 1439 il concilio di Basilea considerò questo mistero come una verità di fede, e Pio IX ne proclamò il dogma nel 1854.Dio ha voluto Maria per la salvezza dell’umanità, perché ha voluto che il Salvatore fosse «figlio dell’uomo»; per questo viene applicata a Maria, con pienezza di significato, la parola di Dio contro il tentatore: «Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa» (Gn 3,15). E Maria viene riconosciuta come la «nuova Eva, madre di tutti i viventi» (prima lettura). Così Maria appare accanto a Cristo, il nuovo Adamo, e perciò ci si presenta come colei che aiuta a riscoprire e a rispettare il posto della donna nella salvezza dell’umanità. Richiama ed esalta il posto e il compito della vergine, della sposa, della madre, della vedova, nella società, nella Chiesa e nel mondo; rivendica la dignità della donna contro ciò che la attenta.

Un segno che il male è sconfitto
Accanto al vero Adamo fu creata la vera Eva: Maria fa parte del mistero di Cristo. Dove era abbondato il peccato, è sovrabbondata la grazia. L’Immacolata è il «segno» che con la risurrezione di Cristo il male è già sconfitto «in partenza» se una creatura ha potuto essere ripiena di grazia dal primo istante della sua esistenza.La Scrittura, con il triste ritornello: «E fece quel che è male agli occhi del Signore, imitando i suoi padri» (cf 2 Re 13,2.11...), vuol dare un esempio dell’implacabile contagio del peccato che il libro della Genesi esemplifica più plasticamente ricercando l’origine del male. Maria Santissima, sottratta al peccato «originale», anche la garanzia che nel mondo il bene è più forte e più contagioso del male. Con lei, la prima redenta, ha inizio una storia di grazia «contagiosa».

Un segno dei tempi nuovi

Il tema dell’Immacolata è centrale per l’Avvento che prepara a rivivere il «mistero della Redenzione» in avvenimenti dove la grazia fa irruzione in modo sovrabbondante. L’Incarnazione del Verbo, l’esultanza del Precursore nel seno materno, il Magnificat, il «Gloria!» degli angeli, la gioia dei pastori, la luce dei magi, la consolazione di Simeone e Anna, la teofania al Giordano anticipano i segni dei tempi nuovi.La liturgia rende presente in mezzo alla nostra assemblea la potenza che ha preservato la Vergine dal peccato: celebra infatti nell’Eucaristia lo stesso mistero della redenzione, di cui Maria per prima ha goduto i benefici e al quale noi partecipiamo, secondo la nostra debolezza e le nostre forze.

Vangelo Lc 1,26-38

Ecco concepirai un figlio e lo darai alla luce.

Dal vangelo secondo Luca

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.


domenica 7 dicembre 2008

Comunicato Nr. 2 - 7 Dicembre 2008


Cari fratelli un saluto a tutti voi che ci seguite costantemente.
Dopo una pausa di silenzio, dovuta ai vari impegni di ognuno di noi, il progetto "granelli di sabbia" prosegue il suo cammino.
A dire il vero, dopo anni passati ad animare le varie celebrazioni nel convento di Tortona, quest'anno ci eravamo rassegnati a trascorrere un Natale tranquillo senza strumenti in mano.
Invece ci è giunta, a sorpresa, la richiesta di animare la messa della notte di Natale nella parrocchia di Sant'Antonio da Padova in quel di Isola Sant'Antonio (AL).
Ne siamo felici ed abbiamo accettato di farlo con gioia e semplicità.
Inoltre ci è stata concessa la possibilità, da parte di Padre Roberto Cattaneo, a cui va già il nostro grazie, di animare la messa di suffragio di Anita (la mamma di Gianluca), domenica 21 dicembre, nel convento dei Frati Cappuccini di Tortona.
Desideriamo informarvi, inoltre, che "la band" si è arricchita di due nuovi elementi: Maria Petti e Brigida Liparoti che con il loro contributo hanno indubbiamente arricchito il risultato finale.
A presto.
"granelli di sabbia"

Vangelo della II Domenica di Avvento - Anno B

Vangelo Mc 1, 1-8
Raddrizzate le vie del Signore.
Dal vangelo secondo Marco

Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio. Come sta scritto nel profeta Isaìa: «Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore,raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».

venerdì 5 dicembre 2008

"Tempo di Avvento, tempo di vigilanza" (di padre Valter ARRIGONI)


Abbiamo iniziato domenica scorsa, 30 novembre, il tempo di Avvento, il tempo che ci prepara al Natale. La parola chiave di questa attesa del Signore che viene è “vigilanza”. Le vigilie sono le ore della notte. Stare attenti ai segni dei tempi per riconoscere il Signore presente nella storia. Stare attenti a noi stessi per educarci alla centralità di Dio nella nostra vita. Abbiamo abbandonato le vie del Signore ed abbiamo preferito le vie del mondo. Le gioie che ci vengono offerte a buon mercato e che hanno sepolto la misteriosa e silenziosa presenza di Dio nella nostra vita, nelle scelte, nei giorni che passano. Dopo aver contemplato gli ultimi tempi in queste ultime domeniche con il Vangelo di Matteo, adesso siamo accompagnati da Marco al Natale. Ci si ferma a riflettere, si riconoscono le nostre malattie spirituali e si intraprende la via che avevamo abbandonato per poter tornare a Gesù. Anche noi nella notte di Natale andremo con i pastori e gli angeli alla grotta santa e lì troveremo Maria, sua e nostra madre, Giuseppe che custodisce il mistero di Dio, e Gesù, un bambino come tanti altri ma che porta in sé la risposta di Dio agli uomini. L’Avvento è il tempo della carne che grida la sua domanda (così come la Quaresima sarà il tempo della carne che fa penitenza per i suoi peccati).Il Natale è la festa della risposta di Dio alla domanda della carne. Poveri gli uomini che si ritengono saziati, riempiti, soddisfatti, dalle cose che hanno e pensano di non avere domande, desideri, bisogni ai quali Dio e Dio solo, può rispondere! Poveri gli uomini che non hanno altri desideri che quelli della loro carne, del loro mondo, del portafoglio o della soddisfazione dell’egoismo, della superbia! Nel fermarci a verificare dove siamo e che strada stiamo percorrendo l’esame di coscienza ha come tema gli idoli che hanno preso il posto di Dio. L’amarezza che ci viene lasciata nel cuore, il senso di inutilità, di fallimento, di scontentezza e di insoddisfazione sono la voce di Dio che parla alla nostra vita nella coscienza. Accorgersi che qualcosa non va è l’inizio della conversione. La strada per uscirne, per guarire, ci viene indicata in questo tempo di Avvento. Ogni domenica, ogni Parola che ci viene proclamata, ogni preghiera ed ogni atto che ci viene suggerito serve a rimettere al centro Gesù Cristo.
In questo anno liturgico che inizia con l’Avvento e che secondo il calendario della Chiesa è l’anno B il Vangelo che ci accompagna è il Vangelo di Marco. Nipote di Barnaba, Giovanni Marco segue nella prima missione lo zio e san Paolo ma ad un certo punto torna a casa e lascia i compagni di missione. Per questo motivo Paolo si oppone a Barnaba quando partono per il secondo viaggio e Barnaba vuole portare con sé il nipote. Fra Paolo e Barnaba nasce un disaccordo e si separano. La famiglia di Marco aveva seguito Gesù fin dall’inizio tant’è che Marco, ancora giovinetto, era con gli apostoli e con Gesù nell’orto degli ulivi quando Gesù fu arrestato. Nel racconto dell’arresto di Gesù infatti Marco inserisce quello che tecnicamente si chiama “sfraghìs”, cioè segno distintivo, firma. “Tutti allora, abbandonandolo, fuggirono. Un giovinetto lo seguiva, rivestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via, nudo”. Marco parla di se stesso. Per quanto giovane era ben inserito nella primitiva comunità cristiana. Il suo racconto delle parole e dei gesti di Gesù inizia il nuovo genere letterario che prende il nome di Vangelo. Riporta i ricordi suoi e di Pietro su Gesù: Gesù è il Vangelo, la buona notizia. Gesù è la risposta di Dio a tutti, all’umanità intera. Ci sono tre affermazioni della centralità di Cristo riconosciuto come il figlio di Dio, il Vangelo, la buona notizia, Dio egli stesso. All’inizio del Vangelo troviamo l’espressione: “Buona notizia che è Gesù Cristo, Figlio di Dio”. A metà del Vangelo troviamo Pietro che afferma: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”. Alla fine del Vangelo, ai piedi della croce dove c’è Gesù morto, il centurione romano confessa: “veramente quest’uomo è il Figlio di Dio”. Gesù è venuto per tutti, ebrei e pagani. Pietro ed il centurione. Tutti. E’ ormai unanimemente accettato che il Vangelo di Marco è il primo ad essere stato scritto. E’ servito da base ai Vangeli di Matteo e Luca. Riporta i ricordi del giovane Marco che è diventato, nel frattempo, il “segretario” di Pietro. Struttura il suo racconto secondo il discorso di Pietro al centurione Cornelio, secondo il suo annuncio: Giovanni il Battista, il battesimo di Gesù e la missione in Galilea. I miracoli di Gesù fuori dalla Giudea ed infine il viaggio a Gerusalemme. L’attività a Gerusalemme. Tutto è centrato su Gesù. Qualche esegeta parla del Vangelo di Marco come del Vangelo del discepolato, il catechismo per gli adulti romani che si avvicinano alla nuova fede. Secondo me in questo racconto che Marco ci offre c’è la sua dichiarazione d’amore per Gesù. Il mettere il Cristo al centro della propria vita. Far ruotare tutto attorno a Lui. E’ la sua esperienza ed è anche quella di Pietro e di Paolo, dei suoi maestri. E’ il Vangelo che non si adegua mai né al moralismo dei giudei e neppure all’intellettualismo dei greci. Rischi che la fede nascente incontrava. Lo stesso Paolo infatti scrive ai corinzi: “annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i giudei e stoltezza per i greci”. Il Vangelo è la persona di Gesù, la sua carne, quello che ha detto e fatto. Anche nella prima domenica abbiamo sentito la parabola di un uomo che parte ed affida ai servi i suoi beni. Ma l’attenzione questa volta è sul fatto che tornerà quando meno ce lo aspettiamo. Ritornerà di certo “la sera, a mezzanotte, al canto del gallo, al mattino presto”. Il Signore viene nella notte. Le indicazioni del momento infatti sono tutte legate alla notte. Buio del mondo e della vita. Morte, disperazione, solitudine, tradimento, povertà, peccato, ingiustizie, violenze, guerre, miserie. In questa notte siamo chiamati ad essere luce nelle tenebre, sale della terra. Non si parla in queste letture del giudizio (come nelle letture delle scorse domeniche) ma del ritorno del Signore. San Paolo ci dice che abbiamo tutti i doni, le grazie dal Signore per svolgere il nostro compito di luce e sale. Il profeta Isaia ha una invocazione bellissima “se tu squarciassi i cieli i scendessi”. E Dio lo ha fatto in Gesù. Ha squarciato i cieli ed è disceso. Noi siamo testimoni di questo. Noi siamo i testimoni di questo. A noi il compito di essere per gli uomini la risposta di Dio. Il suo orecchio che ascolta, le sue mani che curano, la sua bocca che conforta. A noi il compito di essere la voce della domanda, del grido disperato dell’umanità ferita, che si leva a Dio nella preghiera. L’avvento è il tempo della carità che si curva con misericordia e tenerezza sulle pieghe degli uomini e della preghiera che grida a Dio: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi”. Nella seconda domenica sottolineo due aspetti che sono l’inizio del Vangelo di san Marco e la figura di Giovanni il precursore (nelle icone bizantine viene definito il prodromo).Il Vangelo non è un libro come superficialmente noi pensiamo ma è la persona di Gesù Cristo. Vangelo è una parola greca che significa “buona notizia”. Veniva usata per indicare la notizia della fine vittoriosa di una guerra o la nascita dell’erede al trono. Veniva accompagnata dalla distribuzione gratuita di dolci (solitamente schiacciate d’uva), di pane, di denaro. Portava con sé una gioia anche molto concreta. Marco inizia il suo Vangelo con questa frase: “Inizio del Vangelo di Gesù Cristo”. Di “Gesù Cristo” sia in greco che in italiano può voler dire “che è di Gesù Cristo”, “che parla di Gesù Cristo” (si chiama genitivo oggettivo: “la mela di Pietro”, “il romanzo dei Promessi sposi). Ma può anche significare, come in questo caso “il Vangelo che è Gesù Cristo” (si chiama genitivo soggettivo: “la città di Milano”!). Marco inizia il suo Vangelo, la sua buona notizia, la risposta ai secoli di domande degli uomini affermando che la risposta, la nascita dell’erede, la vittoria nella guerra è la persona, la carne, di Gesù. Gli ebrei attendevano la venuta del Messia che sarebbe stata preannunciata dalla figura del profeta Elia (figura che appartiene anche alla tradizione islamica con il nome di “profeta verde”). Per molti ebrei del tempo di Gesù il Battista è questa figura di Elia che annuncia la venuta del Messia. Si capisce allora perché accorrevano a lui per ricevere il battesimo, il lavacro, di penitenza. Si trattava di un rituale che prevedeva lo scendere nell’acqua del Giordano per lavarsi dai propri peccati. Torneremo sulla figura del Battista, del precursore. E’ sua la voce che grida nel deserto. Qui c’è una questione di punteggiatura. Isaia scrive: “voce di uno che grida: nel deserto preparate le vie del Signore”. Significa che tutti quelli che ascoltano devono fare deserto nella propria vita, nella loro anima. Solo nel deserto si sanno vedere le oasi, riconoscere i segni della vita presente dietro le apparenze della morte. Solo nel silenzio e nella solitudine si può sentire e riconoscere la voce di Dio. Marco invece scrive: “voce di uno che grida nel deserto: preparate le vie del Signore”. Cioè nel tempo della notte, della morte, dell’attesa, della domanda viene un profeta che annuncia la venuta del Signore. Il deserto è cioè la condizione del profeta. Potremmo dire di ogni profeta, anche nostra oggi.
Il sette dicembre festeggio i venti anni della mia ordinazione sacerdotale per le mani del Vescovo Casale. Sarò a Lourdes. Ricordatemi.
Rimando ogni festeggiamento al 14 febbraio nel ricordo del quinto anniversario della mia Professione solenne. nelle mani del Vescovo Tamburrino, come monaco diocesano. In quella occasione presenterò il mio secondo libro, “Essere amici di Gesù”. Vi farò sapere il programma.
p. Valter Arrigoni

domenica 23 novembre 2008

"La domenica di Cristo Re" (di padre Valter ARRIGONI)

Siamo arrivati alla fine dell’anno liturgico e la Chiesa ci invita a contemplare Cristo, re dell’universo. Tre sono le traiettorie delle domande che siamo invitati a porci, i percorsi della riflessione alla luce della Parola che ci viene donata e con la quale dobbiamo confrontare la nostra vita secondo l’ammonimento del Signore: “non chi dice: Signore, Signore ma chi fa la volontà del Padre mio entrerà nel Regno dei cieli”, “chi ascolta la mia Parola e la mette in pratica è per me fratello, sorella e madre.” Anche l’apostolo Giacomo ci invita con la sua abituale franchezza ad essere ascoltatori che mettono in pratica e non solo persone che illudono se stesse dicendosi che hanno ascoltato la Parola. Usa un’immagine eloquente quando paragona gli ascoltatori che non agiscono di conseguenza alle persone che si guardano allo specchio e poi appena si sono allontanate non ricordano più il loro volto. Il nostro volto, la nostra identità, i valori che seguiamo, le verità della nostra vita sono descritte, definite, illuminate dalla Parola.
Questa domenica dunque ci sono almeno tre aspetti su cui fermarci. Cristo è il re dell’universo, siamo chiamati ad adorarlo, a porre il suo trono anche nella nostra vita, nel nostro cuore e questa centralità di Cristo si vede dalle nostre azioni.
Le due premesse, che mi sembra di dover fare, sono sulla necessità di fermarci a riflettere. Sembra un tempo inutile quello della riflessione ma è invece indispensabile e la Chiesa (mater et magistra) ci chiede di fermarci a riflettere proprio prima del tempo di Avvento. Tempo forte di conversione. Quasi che questa domenica dobbiamo tracciare la strada da seguire fino a Natale. La penitenza nella spiritualità cristiana non è fine a se stessa ma è un cammino di formazione, di rieducazione della nostra persona e della nostra vita. Il termine, soprattutto quaresimale, di quaranta giorni, il numero quaranta, non indica un tempo di penitenza ma soprattutto di formazione. Ci fermiamo oggi, rivediamo la nostra vita, ci decidiamo alla conversione, scopriamo la nostra malattia spirituale e lasciamo a Dio il compito di tracciare il cammino da seguire. E dalla domenica che verrà, la prima di Avvento cominciamo a camminare su vie nuove fino all’incontro con il Signore che viene di nuovo in mezzo a noi nel Natale.
L’altra premessa fondamentale riguarda i comportamenti sui quali saremo giudicati. Le opere di misericordia che ci invitano, ci obbligano ad amare “il più piccolo dei fratelli”. Ci sono due tentazioni nella lettura e nella spiegazione delle parole di Gesù; da una parte l’eccessiva spiritualizzazione delle categorie dei poveri cui fa riferimento. Affamati, assetati, nudi, forestieri, malati e carcerati. Alcuni vogliono leggere in queste parole solo delle situazioni dello spirito, come se non esistessero uomini che sono davvero affamati, assetati, nudi, forestieri, carcerati nelle prigioni e non prigionieri dei loro vizi, malati negli ospedali e non come conseguenza dei loro peccati. Questi “spiritualisti” si lavano le mani davanti al male del mondo, alle sofferenze degli uomini. Alimentano e giustificano così la loro avarizia, il loro egoismo, l’impegno profuso nella difesa del loro benessere, del benessere della loro famiglia, dei figli, della patria. L’altro rischio è quello opposto cioè quello di coloro che leggono queste parole solo come aiuto alla carne dell’uomo, vedono solo l’orizzonte della terra e del mondo. Dimenticano che l’uomo è anche spirito, intelligenza e dignità.
Il brano del Vangelo viene dal capitolo XXV di Matteo. E’ il capitolo che ci ha accompagnato in queste ultime tre domeniche. La parabola delle vergine sagge e delle vergini stolte ci è ha detto che dobbiamo vigilare perché lo sposo, il Signore, torna quando non ce lo aspettiamo. Ci viene chiesto di avere abbastanza olio, preghiera e carità, fede e speranza per affrontare la notte e farci trovare pronti. La scorsa domenica il Vangelo dei talenti ci ha insegnato che ci sarà un giudizio perché tutto quanto ci è stato dato in affidamento, in consegna, anche la nostra vita, il mondo, le persone che incontriamo. Tutto ci è affidato e ci vengono dati a talenti per compiere bene l’opera. Talenti che dobbiamo far fruttare senza paura e senza pigrizia. oggi ci viene detto quale è il contenuto del giudizio, le domande alle quali con le opere della nostra vita abbiamo risposto. Sono domande concrete, sono fatti che o ci sono o non ci sono. Domande alle quali possiamo rispondere solo con un sì o un no. “Il vostro parlare sia sì sì, no no, il resto viene dal diavolo”.Qui non si tratta di fare discussioni accademiche. Il giudice è Dio stesso. Non un filosofo o un avvocato.
Il giudizio al quale Matteo si riferisce è il giudizio finale. Fino ad allora c’è il purgatorio come luogo nel quale possiamo ancora purificarci. Dopo ci sarà solo il paradiso o l’inferno.
Finisce allora il tempo intermedio che passa fra la venuta di Gesù sulla terra ed il suo ritorno nella gloria. Il tempo del giudizio particolare che attende ogni uomo al momento della morte. Il giudizio al quale si riferisce Matteo è quello universale, finale.
La pagina del Vangelo inizia con una descrizione apocalittica, gloriosa, densa di immagini, di simboli. “Quando il Figlio dell’uomo verrà … seduto su un trono … con gli angeli e i giusti”. il Figlio dell’uomo fino al profeta Daniele ed alle sue visioni significa l’uomo stesso (“che cosa è l’uomo perché te ne ricordi o il figlio dell’uomo perché te ne dia pensiero?”) ma con il profeta Daniele questa immagine viene ad indicare una creatura divina tanto che quando durante il suo processo Gesù la applicherà a se stesso susciterà scandalo e la reazione del Sommo Sacerdote ch si straccia le vesti. anche le altre immagini usate da Matteo vengono dal cerimoniale di un re d’oriente nella sua corte, nella reggia, nella sala del trono.
“E saranno riunite davanti a lui tutte le genti”. Il giudizio è universale riguarda tutte le genti non solo ebrei e cristiani. Dio è il Dio di tutti gli uomini, Gesù salva tutta l’umanità. Lo ripetiamo ogni volta nella consacrazione quando diciamo del pane che diventa carne di Cristo “prendete e mangiatene tutti” e sul calice del vino “bevetene tutti … versato per voi e per tutti”. Gesù è il salvatore, la via, la vita e la verità di ogni essere umano anche del più lontano da lui.
Il criterio del giudizio è universale. Tutti gli uomini, qualunque sia la loro razza, etnia, religione, qualunque sia il loro credo filosofico, politico, ideologico, sono uomini se amano. le categorie delle quali parla Gesù sono universali. Affamati ed assetati rappresentano i bisogni essenziali dell’umanità che pur tuttavia vengono negati ad alcuni. Nudi e forestieri sono il segno della dignità di chi ha lavoro e casa e dell’umiliazione di coloro che non hanno di che coprirsi ed un tetto sotto cui ripararsi. Infine malati e carcerati sono gli emarginati, gli esclusi coloro che non appartengono a nessuno. Al tempo di Gesù si pensava che la malattia fosse una maledizione di Dio per i peccati commessi. Il malato era escluso come colui che si trovava in carcere.
E’ chiaro per Gesù che questa attenzione all’uomo, alla dignità della persona è così valida per tutti che i giusti, coloro che fanno le opere di misericordia non le fanno per amore di Gesù. Infatti affermano di non avere mai incontrato il Signore.”Signore quando mai ti abbiamo veduto affamato … assetato … nudo … forestiero … malato … in carcere?” Cioè non abbiamo amato il povero per amare te ma perché ci muovevano tenerezza e compassione per l’uomo, per l’essere umano, per la sua dignità. E Gesù dirà loro “ogni cosa che farete al più piccolo dei miei la fate a me”: Non si tratta qui di in Dio solidale col povero, difensore dell’orfano e della vedova, portatore d libertà per il prigioniero, di vista per il cieco ma di Dio che si identifica col povero. “Io, Gesù, il tuo Dio, quello che adori nei tabernacoli, nelle processioni sono il carcerato, il malato, il forestiero”. “Ecco io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura … io stesso giudicherò”.
Lascio alla fine di questa meditazione una domanda provocatoria. Che cosa significa amare il prossimo? Cosa vuol dire carità? come aiutare davvero il forestiero? l’ammalato? Il carcerato? dobbiamo riflettere, secondo me, sul vero significato della carità: I pochi spiccioli che diamo per tacitare le nostre coscienze, per sentirci giusti non sono la vera carità. un proverbio cinese dice che all’affamato che ti chiede un pesce tu devi dare una canna da pesca ed insegnargli a pescare. Agli zingari, ai rumeni, ai neri che si trovano agli incroci delle nostre strade a chiedere la carità (non dovremmo mai usare questo termine per al posto di offerta) gli spiccioli che diamo non cambiano la situazione, non la risolvono ma li lasciano senza dignità. La vera, più grande, utile carità è ridare ad ogni uomo la sua dignità di immagine e somiglianza con Dio. per questo Gesù si identifica con ogni uomo, soprattutto il più piccolo, quello al quale è stata tolta la dignità.

venerdì 21 novembre 2008

"La farfalla materialista" (di Angela DELCURATOLO)

La farfalla materialista non avendo mai visto l'inverno e non avendo mai visto uno dei suoi simili tornarne ne concludeva: "L'inverno non esiste", "fratelli alati" diceva, "da un po' di tempo circolano tra noi discorsi sconsiderati concernenti un altro mondo che certi deboli chiamano Inverno. Quante cose inverosimili, quante sciocchezze sono state raccontate a proposito di questo mitico paese! Sembra che laggiù la terra sia dura come cemento, che l'acqua diventi come vetro, che la si possa tagliare in cubi. Perfino la pioggia non è più pioggia e cade sotto forma di cristalli chiamati neve. Acqua solida! Pioggia in fiocchi! Mi sia permesso ridere del riso severo dei grandi umoristi! Come se potessero esistere altri stati della materia oltre a quelli che noi conosciamo: la terra friabile, e l'acqua liquida! In questo continuum spazio-tempo, ci dicono, gli alberi non portano più quelle foglie, quei fiori, quei frutti destinati fin dall'eternità a nutrirci; Lo stesso sole, che si accende ogni mattina per illuminare i nostri giochi, non è che un pallido globo senza né luce né calore. E quello che è veramente il colmo dell'assurdo e dell'impossibile, la razza degli insetti, che qualificherei divina se esistesse un Dio, è completamente assente da questo preteso aldilà della primavera-estate. Si fratelli lepidotteri, reggetevi, la farfalla, questo essere che i felici casi dell'evoluzione hanno vestito di porpora, di smeraldo e di blu notte, questa magnifica gemma della corona degli esseri, è totalmente scomparsa da un mondo di cui è ornamento e la finalità è, anzi la teologia. Come razionalista, non posso parlare di finalità. Nel paese chiamato inverno sussisterebbero solamente le razze primitive: uccelli, rettili, mammiferi, uomini. Solo queste specie inferiori dalla mente fondamentalmente ingenua e pre-logica, credono nell'inverno e pretendono di averlo attraversato. Sono loro che hanno sparso tra noi queste voci ridicole, infantili, insensate, e io sono desolata di constatare che certe farfalle, dimentiche della loro dignità originale, hanno fatto eco a quanto raccontano questi poveri esseri, sprovvisti di qualsiasi razionalità. Quanto a me, con tutta la forza delle mie convinzioni logiche e scientifiche, fondate sull'esperienza mia e su quella della mia razza, affermo che non esiste, che non può esistere altro mondo se non quello che ci circonda e che i vostri antenati hanno chiamato primavera-estate. L'inverno non esiste e non può esistere per la semplice ragione che mai nessuna farfalla è tornata per dirci com'è!"


Che dire dunque? Direi che troppe "farfalle materialiste" prevalgono nel mondo...Ci impongono le loro idee "razionali" come verità e certezze...Anche io facevo parte della categoria di quelle "farfalle"...Ma poi, grazie a Dio, qualcosa è cambiato...anzi tutto è cambiato...la Fede ha preso il posto del materialismo...e devo dire che la vita prende una forma decisamente migliore!

Angela Delcuratolo - Broni (PV)

lunedì 17 novembre 2008

"La fede e la legge" (di padre Valter ARRIGONI)

Ai tempi di Gesù la sinagoga conosceva 613 comandamenti, di cui 248 positivi (fai questo ...) e 365 (quanti sono i giorni di un anno) negativi (non fare ...). A loro volta questi 613 comandi erano divisi in grandi e piccoli. Una tale lacerazione dell’amore verso Dio tranquillizzava i farisei perché sapevano, con questa morale del permesso e del proibito, fino a che punto potevano spingersi senza commettere peccato. Con questa morale della bilancetta sapevano cioè di che cosa Dio doveva premiarli. Spesso troviamo nei Vangeli farisei, dottori della Legge, gente qualunque che chiede a Gesù: “cosa devo fare?”, “secondo te cosa è giusto”, “dobbiamo o no pagare il tributo a Cesare”. Nella più parte dei casi queste domande sono fatte per “cogliere Gesù in fallo e poterlo condannare”. Anche questa domenica il Vangelo, come domenica scorsa, è introdotto dalla frase “i farisei sapendo che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducei”. I farisei sono le guide spirituali del popolo di Israele, sono esperti nella Legge, la Parola di Dio. sono un movimento che oggi chiameremmo trasversale perché al loro interno c’erano sacerdoti, rabbini, laici impegnati. Il loro desiderio era di essere fedeli alla Legge del Signore, di non contaminarsi, di essere esemplari per gli altri e di guidarli sulla vie della vera fede. Non erano mossi da sentimenti negativi. Erano impegnati. Uomini di preghiera. Osservanti. Verso di loro hanno sentimenti molto negativi i primissimi cristiani, gli autori stessi dei Vangeli, perché i farisei erano i persecutori di Gesù e dei cristiani, portarono a morte il Signore ed uccisero Stefano, Giacomo ed altri fratelli. Li uccisero perché il cristianesimo era visto come una eresia, una bestemmia contro YHWH, l’unico e vero Dio. i cristiani affermavano che YHWH non era uno solo ma tre persone. Addirittura che un uomo, conosciuto da tutti, un rabbi autorevole ma pur sempre un uomo, addirittura morto in croce (era la morte dei maledetti), Gesù di Nazaret, era Dio. Questa affermazione per i pii ebrei era una vera e propria bestemmia. Anche le parole di Gesù, del loro maestro, ed i suoi atteggiamenti, andavano contro la Legge. Parlava con i romani. Si intratteneva con pubblicani, ladri e prostitute. Spesso in pubblico li metteva a tacere e faceva loro fare una brutta figura. Gesù dava fastidio a tutti. I sadducei non erano amici dei farisei. Appartenevano alle classi sacerdotali alte, come se fossero la nobiltà, erano filo romani, perché Roma garantiva loro il potere. Poiché per loro la Bibbia consisteva solo nei primi cinque libri, il pentateuco (gli altri, profeti- sapienziali-. Storici, erano stati inseriti nella Bibbia durante l’esilio e dopo dagli scribi e dai dottori della Legge, ed i sadducei non riconoscevano a questi il diritto di aprire il canone della Scrittura) non credevano nella risurrezione dei morti. Erano “nemici” ma quando si è trattato di eliminare Gesù si sono alleati! Oggi un dottore della Legge, fariseo, infastidito da questo Rabbi che non si sa dove abbia studiato, da dove venga, a che scuola appartenga, che si permette di saperne più di tutti e di essere ammirato dal popolo, dai soldati (“parla come nessun altro”, “opera miracoli con la potenza di YHWH”) gli chiede “Maestro (captatio benevolentiae cioè fare un complimento per creare un clima di benevolenza, ma il complimento spesso non è sincero) quale è il grande comandamento?” anche la parabola del buon samaritano viene introdotta dalla domanda di un fariseo, per giustificarsi della brutta figura fatta, inizia anche lei con una “captatio benevolentiae”, e chiede un elenco “chi è il mio prossimo?”. Come dire, “fammi un elenco di coloro che hanno diritto ad essere amati da me così anche se non amo gli altri, non pecco, non vado incontro al castigo di Dio”. Gesù risponde citando due passi presi dal Deuteronomio e dal Levitico, libri del Pentateuco, libri che contengono diversi comandamenti, precetti, indicazioni di atteggiamenti ma che in questi due punti fanno la sintesi della Legge. Quasi che Dio nell’ispirare le leggi si sia accorto del rischio che gli uomini si disperdessero nelle cose da fare perdendo la ragione, il motivo, quello che conta. “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore (intensità di affetti), con tutta l’anima (intensità di ascolto) e con tutta la mente (intensità di meditazione). Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Solo la nostra impossibilità a dire le parole una sopra l’altra ci costringe a fare un elenco, ma il secondo vale come il primo, sono allo stesso livello, sono interscambiabili. Dio si identifica con la sua creatura, dio si identifica con l’uomo. Quello che fai ad un uomo lo fai a Dio. Questa identificazione Matteo la renderà ancora più radicale ed esplicita quando racconterà il giudizio universale nel quale Gesù che verrà nella gloria per giudicare tutti arriva a dire “ogni cosa che fate al più piccolo dei miei fratelli la fate a me ed ogni cosa che non fate loro è a me che non la fate”. Gesù che si identifica, si immedesima, ci chiede di riconoscerlo “nell’affamato, nell’assetato, nel malato, nel carcerato, nel forestiero”. Sempre al dottore della Legge fariseo chiarisce il cuore dei comandamenti di Dio: “Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge ed i Profeti”cioè “in queste due affermazioni c’è tutta la rivelazione di YHWH”.
“La Legge ed i Profeti” sono infatti un modo per indicare tutta la Bibbia, l’Antico Testamento, per gli ebrei.
Sono solo due i suggerimenti che vi propongo per la riflessione: molti sono tentati di ridurre la fede alla legge, all’osservanza formale di alcune regole; ma che cosa significa la parola “amore”?
La riduzione della fede, della religione (fede organizzata) alla legge, ad un insieme di precetti, di osservanze formali era il peccato che Gesù stesso contestava ai farisei. Diceva loro che per rispetto delle regole dimenticavano gli uomini. Quasi che Dio fosse solo interessato al culto della sua “persona” a scapito dell’amore fraterno, della carità verso i poveri, i deboli (nei salmi troviamo le categorie degli orfani e delle vedove come simbolo di tutti i poveri). Gesù è stato mandato dal Padre per rivelare il suo vero volto, il suo cuore, il cuore della sua legge e della preghiera. Cosa vuol dire cioè essere uomini di Dio, secondo il suo cuore. Cosa fare? Come comportarsi? Come pensare? Come essere? Siamo chiamati a convertirci cioè a cambiare il nostro modo di essere, di pensare, pregare, agire. Non più secondo quello che pensiamo noi o come ci hanno educati ma essere, pensare, agire, pregare come vuole Dio. Ci sono troppi farisei fra di noi. Non solo (anche, purtroppo) nel senso di ipocriti, falsi, pettegoli ...) ma soprattutto gente convinta che le fede, l’esperienza gioiosa di Dio sia solo riducibile all’osservanza della legge. La fede è per prima cosa amore di Dio e del prossimo. Prima e forse unica.
Ma qui viene la seconda riflessione: cosa significa amare?
Oggi mi fermo solo su un aspetto di questa parola che è immensa nei suoi contenuti. D’altra parte “amore” è un nome di Dio. Nel meditare oggi su questa parola ho colto questa aspetto:amare è mettere l’altro al centro della tua vita. Non dargli i ritagli, le frattaglie del tuo tempo, dei tuoi sentimenti, del tuo cuore, della tua vita (se ho tempo ... se mi resta qualcosa ... dopo tutto e tutti vieni anche tu ... prima devo pensare a me stesso ...). Gesù nel mettere sullo stesso piano Dio ed il prossimo ci insegna che Dio stesso esce da se stesso e pone al centro della sua vita, del suo cuore, della sua passione noi, gli uomini, fino a dare suo Figlio, il suo unico Figlio, per noi.
Andare verso Dio è uscire dal mondo dove io sono il centro e mettere al centro un Altro e gli altri.

sabato 15 novembre 2008

"Fratelli ovunque" (Gabriella, Francesco, Giovanni e Raffaele)

Leggendo una testimonianza su queste pagine ci hanno colpito e fatto riflettere alcune parole: "sono le persone, i fratelli, e non i luoghi la cosa più importante in un'esperienza di Dio" e "l'esperienza di Lui la fanno le persone non i luoghi".
Questo semplice concetto ci sembra vero in rapporto all'esperienza che stiamo vivendo in questo periodo, che per noi è occasione di crescita ma anche di scelte più precise per la vita e la relazione con i fratelli. Ed è vero anche perchè le persone le porti soprattutto nel cuore e da lì, ovunque le incontri, quello diventa un luogo speciale; ciò può valere anche per una "compagnia" di persone, caratterizzata cioè dall'amicizia, guidata dal proprio pastore, sacerdote, così come Gesù stesso ci ha insegnato con la sua vita.
La casa di preghiera, la "casa del Signore",nella chiesa, può essere forse anche questo. A volte invece siamo tentati di viverla come un luogo dove andiamo per prender posto, presi da noi stessi tanto da non accorgerci degli altri; o dove andare a tutti i costi, per assolvere un compito, ricoprire un determinato ruolo, a volte passando oltre se un tuo prossimo è in difficoltà ma in quel momento costituisce un intralcio.
Gesù ci ha messo in guardia dai tanti possibili comportamenti sbagliati, e ci ha ricordato che "la mia casa sarà chiamata casa di preghiera ma voi ne fate una spelonca di ladri".
Ha denunciato con forza l'incongruenza e vanità di alcuni atteggiamenti, svelando l'ipocrisia che ci fa rinnegare ciò che più conta rispetto alle pratiche esteriori, e cioè "la giustizia, la misericordia e la fedeltà". Questo tanto più se il danno ricade anche indirettamente su chi è piccolo, o in difficoltà o nella prova, e anche su chi è ancora lontano e ha bisogno più di noi.
Quando Gesù parla agli scribi e farisei è molto duro e le sue parole fanno riflettere su noi stessi al fine di vigilare affinchè fuori e dentro la casa di preghiera non si debba voltare le spalle alle persone, tradire i valori umani e cristiani: ad esempio la lealtà e fedeltà nell'amicizia, o la fiducia, per una volontà di autoaffermazione. In questo viene meno la semplicità di un comportamento più giusto che deriva dall'obbedienza a chi sta sopra di noi, il Signore e poi il pastore suo ministro, anche dove significa accettare qualcosa di diverso rispetto a quello che si aveva pensato e si vorrebbe per se stessi.
La lezione di Gesù e di chi ci insegna a seguirlo volendogli bene, è però sempre questa: "rinnegare, perdere, portare", cioè rinnegare se stessi, perdere la propria vita, portare la croce ogni giorno. Spesso non è facile ma speriamo di riuscire almeno un po' in questo con l'aiuto di Gesù e Maria.

Gabriella Gattolin, Giovanni, Francesco e Raffaele Spezia


"La domenica dell'abito adatto" (di padre Valter ARRIGONI)

Nella prima lettura il profeta Isaia comunica al popolo di Israele che la salvezza di YHWH è per tutte le genti, anche per i pagani, per gli altri che non appartengono al popolo santo. A noi può sembrare scontato ma per un pio israelita non lo era affatto. Coloro che non appartenevano al popolo eletto erano con disprezzo definiti “gojm”, le genti, i non ebrei. La vecchia traduzione della Scrittura traduceva i “gentili”, evidentemente non era questione di buona o cattiva educazione ma di appartenenza alle “genti”. I gojm erano impuri e per questo anche il semplice contatto con loro, anche involontario, era peccato, contagiava del male, tagliava fuori dalla salvezza. Tornando dal mercato o semplicemente dall’essere stati fuori casa, i pii israeliti, i farisei osservanti, si lavavano le mani, le braccia fino al gomito (il resto era coperto dalla tunica), i piedi, per purificarsi perché potevano aver toccato qualcuno o qualcosa di impuro. Ma che cosa ci fa appartenere a Dio? L’essere nati in una determinata religione? L’aver ricevuto in eredità quasi come il cognome, la lingua, la patria senza nessuna cosciente adesione? Le letture di queste ultime domeniche che la Chiesa ci ha offerto parlavano di una vigna che è Israele, la Chiesa, l’anima del fedele e finiscono con Gesù che dice: “Perciò io vi dico:vi sarà tolto il regno di Dio (modo ebraico per indicare Dio stesso, l’innominabile) e sarà dato ad un altro popolo che lo farà fruttificare”. Lo stesso Isaia ci diceva quello che ha fatto soffrire Dio e lo ha spinto a togliere la sua benevola benedizione al suo popolo: “Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”. Essere di Dio, appartenere a Lui, essere, e non solo dirsi, fedeli, credenti, è dare a Dio ciò che Lui vuole. Si tratta cioè di una adesione libera e decisa. Il nostro essere fragili, peccatori, feriti dal peccato, ci porta talora a percorre vie che ci allontanano da Dio. Sentieri che ci portano a fare il male. A commettere peccati. Il testo di Isaia richiama anche noi, il nuovo popolo di Dio, i fratelli di Gesù, i salvati e redenti dal suo sangue sulla croce a riflettere sul fatto il Signore Gesù è la salvezza di ogni uomo. Di coloro che sono venuti prima di Lui. Di coloro che non lo hanno conosciuto. Il banchetto che viene preparato sul monte della città santa (resa santa non dalla costruzione del Tempio ma dalla presenza di Dio, del suo Figlio Gesù e dello Spirito di Amore) è apparecchiato per tutti. Il banchetto, che per i Padri della Chiesa, è l’eucaristia, il vero corpo e sangue di Gesù, è Gesù stesso che si offre ad ogni uomo. Tutti i popoli, tutti gli esseri umani, ognuno di noi è salvo e chiamato da Dio. convocato. Ogni uomo può vedere Dio faccia a faccia. “Sarà tolto il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre che copriva tutte le genti”. Il ricordo corre al racconto della morte di Gesù, momento nel quale si squarcia il velo del Tempio. In Gesù il volto del Padre si svela (toglie il velo). Non è più un Dio lontano e sconosciuto, quasi irraggiungibile. Si è fatto uomo perché ogni uomo o possa vedere, riconoscere e dire di appartenergli. Ancora una volta Isaia ci invita ad esultare. Domenica scorsa l’invito era a cantare, oggi ad esultare. E ne abbiamo ben donde. Siamo salvati da Dio stesso. La morte, il peccato, il male sono sconfitti dalla volontà compassionevole di Dio.
Ma c’è una condizione!
Ogni dono di Dio non ci viene imposto ma è sotto la condizione della libertà. Non sono suo per caso ma perché lo voglio.
E’ il senso della parabola che chiude questo ciclo sul Regno di Dio e su quali sono i fondamenti di questo Regno. Anzitutto sulla misericordia. Tre parabole dove si parlava della vigna di Dio che abbiamo chiarito che è un modo per intendere Israele (gli abitanti di Giuda), la Chiesa che è il nuovo popolo di Dio, l’anima di ciascuno di noi al quale è rivolta questa Parola che deve essere ascoltata, capita, amata, messa in atto. Nella prima parabola Gesù ci dice che la salvezza (il salario), il paradiso è aperto a tutti, anche a chi arriva all’ultima ora. Per chi ha cominciato a lavorare fin dall’inizio della vita il premio è già qui, ora, in questo mondo ed in questa vita ed è la gioia di lavorare per Dio. nella seconda domenica Gesù ci narra di due fratelli, uno che dice ed uno che fa. Chiarisce, definisce, che la volontà del Padre suo e nostro non va detta a parole ma fatta, compiuta nei gesti, negli atti, nelle scelte. Taci e fai! La terza domenica della vigna Gesù parla di se stesso come del Figlio mandato dal Padre a riscuotere l’affitto. Viene il momento di quello che i latini chiamavano il “redde rationem”. Dio ci ha affidato il mondo cosa ne abbiamo fatto? Dio ci ha affidato ogni uomo come lo abbiamo accolto? Dio si è consegnato nelle nostre mani come lo abbiamo trattato? Viene il momento per tutti nel quale ci dobbiamo mettere di fronte con verità, anche cruda, adulta, senza veli né parole illusorie, la nostra vita e tutto quello che ne fa parte (tempo, soldi, lavoro, famiglia, persone …)e rispondere se siamo anche noi come i vignaioli omicidi. Se abbiamo anche noi ucciso il figlio portandolo fuori dalla nostra vigna, dalla nostra vita, per impadronirci di tutto tagliando fuori Dio. Se ci siamo uccisi, siamo suicidi. Il Papa diceva proprio settimana scorsa che un uomo senza Dio è morto, non vive.
Per fortuna la parabola dei vignaioli omicidi è una bugia che Gesù che dice per scuoterci. Nella realtà non ha fatto quello che lì dice. Non ha ucciso tutti ma è morto lui per noi.
Oggi però pone una condizione per la nostra salvezza. L’unica condizione che dipende totalmente, solamente, da ciascuno di noi: la mia personale, libera, totale, radicale adesione al suo progetto. La veste dell’uomo clandestinamente entrato al banchetto è la sua adesione, la sua volontà, la sua libertà, la scelta fondamentale della sua vita.
Altrimenti non sarebbe comprensibile questa parabola.
Ancora una volta c’è un re, Dio, il Re dell’universo, il Signore dei Signori. In altre parabole si usa l’immagine del padrone della vigna, del ricco commerciante, del signore della casa con i suoi servi. Ancora una volta c’è un progetto di gioia e di salvezza al quale sono invitati i suoi amici. Simboleggiati dai vari protagonisti delle parabole che ci siamo sentito dire: il figlio maggiore che dice di sì e poi non fa; gli operai della prima ora che sono invidiosi e gelosi; i vignaioli che uccidono i servi- profeti e il figlio- Gesù. Tutti questi protagonisti come gli invitati al banchetto di nozze sono il popolo di Israele che ha rifiutato Gesù. Allora il Re chiama gli altri al suo banchetto. Gli esclusi, quelli che si pensava non fossero compresi nel piano di salvezza di YHWH. “Andate ai crocicchi delle strade e prendete tutti quelli che troverete”. Tutti, presi nella loro attività ordinaria. Tutti senza che se lo aspettassero. Così come erano. Allora perché il Re si arrabbia quando ne vede uno senza l’abito nuziale. Certamente nessuno era in giro quel giorno per le strade vestito per andare a nozze. L’invito è gratuito ma soprattutto a sorpresa, assolutamente inatteso. Ci coglie (perché quegli invitati al banchetto di nozze siamo noi!)impreparati!. Oppure no? Cosa significa l’abito. Cosa ci è chiesto per entrare alle nozze. Cosa ci è chiesto per salvarci? In paradiso chi entra? L’abito che Dio vede non è quello che indossiamo sopra di noi, non è ciò che si vede fuori ma è quello che siamo dentro. Dio, ci insegna Samuele, non guarda ciò che guardano gli uomini ma vede il cuore di ogni uomo, legge dentro. L’abito nuziale, l’abito adatto per entrare al banchetto di nozze, per essere salvati, per entrare in paradiso è la nostra coscienza. E nella nostra coscienza il desiderio di Dio. Il riconoscimento umile dei nostri peccati e del bisogno di essere salvati. La libera adesione alla volontà che Dio ha di salvarci. La tradizione usa il termine “conversione”. Riconosco di camminare su una sentiero sbagliato, che mi allontana dal Padre mio e voglio tornare a lui. Nella mia fragilità, della quale sono cosciente e ne chiedo perdono, so quanto è difficile ma Dio è con me. L’ospite inadatto è colui che si trova per caso nella sala senza volerlo, senza adesione libera, totale, personale. Fuor di metafora è come se uno fosse cattolico solo perché è nato in Italia e, per caso, per la volontà di altri, è stato battezzato senza mai però accettare e vivere le conseguenze di questo battesimo. Senza mai appartenere coscientemente a Dio ed alla sua Chiesa. È entrato nella sala perché sono entrati anche gli altri ma il suo cuore, la sua veste, la sua coscienza sono altrove, sono fuori da lì. Possiamo anche essere preti, suore, eremiti, catechisti, insegnanti di religione. Possiamo anche essere dei genitori che hanno costretto i figli al catechismo ed ai sacramenti ma anche a noi può accadere quello che è successo a quell’uomo. Dio entra in noi e non si ritrova. Diciamo, parliamo, ma non siamo. Neppure lontanamente vogliamo aprire a Dio, farlo entrare. Essere suoi. Il giudizio al quale siamo chiamati è su chi siamo veramente, sulle opere che compiamo, sulla nostra anima, sul cuore, sulla vita, sulla volontà, sulle azioni.

martedì 11 novembre 2008

"Niente è mio" (di padre Valter ARRIGONI)

(Meditazione sul Vangelo della XXXiii settimana)
Il vangelo di questa Domenica continua il tema del giudizio finale iniziato che ci accompagna in questa fine anno. E’ il mese di novembre, tradizionalmente dedicato alla riflessione sulla morte. Nei cimiteri ( in greco koimeterion significa dormitorio, i morti sono coloro che dormono il sonno della pace) molte tombe, che nel resto dell’anno sono dimenticate, quasi in uno stato di abbandono con i loro fiori secchi e marci, con la cera colata e seccata di lumini spenti e mai sostituiti per un anno, adesso sono ricche di fiori freschi, di lumini accesi con il volto di padre Pio in bella vista. Non perché ci si ricordi dei defunti (“chi è morto giace e chi è vivo si da pace”) ma per far vedere ai vicini una ostentazione di cose che copre il vuoto del ricordo e dell’affetto. Ho visto tombe sepolte sotto mazzi di fiori, ceri dalle forme più svariate, addirittura oggetti come li mettevano i pagani nelle tombe dei guerrieri o delle dame. Come si usava fare in Egitto e nelle culture antiche.
Il ricordo dei morti ci porta a riflettere anche sulla nostra morte. E la morte è l’altra parte della vita così come la notte è per metà del giorno che finisce ma per l’altra metà del giorno che inizia, del nuovo giorno. Anche la fine dell’anno liturgico porta la Chiesa e la Chiesa porta noi a meditare sul giudizio finale. Sul fatto che dovremo riconsegnare ciò che ci è stato affidato ma non è nostro.
Il Vangelo di Matteo, che come abbiamo spesso ricordato è un ebreo, che pensa da ebreo e che ha come riferimento culturale e religioso il mondo ebraico è diviso in cinque libri (il Pentateuco i primi cinque libri della Bibbia e per alcuni ebrei l’unica Bibbia) a loro volta divisi in due parti: i discorsi di Gesù ed i fatti del Signore (apoftegmata kai pragmata). Dio prima dice e poi realizza ciò che dice. Come accade anche nella Messa dove prima c’è la liturgia della Parola e poi il fatto, la liturgia eucaristica. Quello che inizia con il capitolo XXV è il discorso escatologico cioè che ha per argomento le cose finali, le ultime realtà. Dopo la morte del singolo secondo la teologia cattolica c’è un giudizio parziale in conseguenza del quale possiamo andare in Purgatorio. Un tempo che ci purifica, ci educa a vedere Dio, come Dio. quasi un tempo donatoci dopo la morte nel quale prepararci alla salvezza. Alla fine del tempo e del mondo ci sarà il giudizio universale dopo il quale non esisterà più il Purgatorio, non ci saranno che l’inferno (forse vuoto!) ed il Paradiso. Nel capitolo XXV di Matteo ci sono tre racconti: delle vergini sagge e delle vergini stolte, che è più giusto chiamare dello sposo che arriva all’improvviso; la parabola dei talenti, che è quella sulla quale ci fermiamo a riflettere in questa penultima domenica del tempo ordinario ed infine la descrizione del giudizio universale, che sarà il Vangelo della festa di Cristo Re.
Qualche giorno fa, il venerdì della XXXI settimana, abbiamo ascoltato la parabola dell’amministratore disonesto. Raccontava di un amministratore che era stato accusato di sperperare i beni del padrone e per questo veniva licenziato. Allora furbamente chiama i debitori del padrone e riduce il loro debito creando così con loro un rapporto di gratitudine che lo aiuterà quando sarà senza lavoro. Gesù finisce il discorso lodando l’astuzia dell’amministratore disonesto. Molti sono rimasti quasi scandalizzati al sentire questa finale. Ma se la capiamo come un invito ad usare nelle cose di Dio la stessa furbizia, abilità, scaltrezza che mettiamo nelle cose del mondo. Se fossimo nelle cose di Dio (Parola, Sacramenti, Carità ...) adulti e bravi come lo siamo con i soldi, il lavoro, la carriera, gli investimenti, gli acquisti! Invece sembra che più diventiamo adulti più siamo lontani da Gesù. Relegato a qualcosa della nostra infanzia. Pochi sono cresciuti nella fede come sono diventati adulti, magari di successo, nelle cose del mondo! Ma di questa parabola sottolineo il ripetersi sette volte del termine amministratore, amministrare, amministrazione. Introduce alla parabola di oggi che inizia raccontando di un uomo che partendo per un viaggio chiama i suoi servi (dieci, come le vergini, nel racconto parallelo di Luca: dieci che significa tutti gli uomini, buoni e cattivi) ed affida loro “i suoi beni”.
La vita, il mondo, le persone che incontriamo, le cose. Gli animali, la natura, l’aria, l’acqua, tutto quello che è creato e che io vedo e tocco appartiene al Signore, è suo bene. Io sono solo l’amministratore ed un giorno il Signore torna, all’improvviso come è accaduto per lo sposo della parabola delle vergini, e mi chiede che cosa ne ho fatto dei suoi beni. Le domande che questa parabola mi pone e che sottopongo a ciascuno di voi sono: quali sono i beni di cui sono responsabile? Quale è il bene più prezioso? Per chi sono responsabile oltre che per il Signore? Quali sono i miei talenti cioè gli strumenti che Dio mi ha donato e dei quali dovrò rendere conto soprattutto per come li ho usati nel custodire “i suoi beni”?
I suoi beni che mi sono affidati li ho scritti prima. Dice un proverbio indiano che il mondo non lo riceviamo in eredità da chi è venuto prima di noi ma che lo abbiamo in consegna per chi verrà dopo di noi. L’ecologismo, la giustizia, il mondo intero non sono l’interesse di pochi ma il cuore di tutti. La lotta contro l’inquinamento, e a Foggia e provincia ne sappiamo qualcosa (anche se da qualche tempo tutto tace !!!! forse il denaro, tantissimo, compra anche le istituzioni e la verità, la libertà?)non è di pochi anarchici ma di tutti perché tutti respiriamo, beviamo, mangiamo e ci troviamo col cancro. Ma non solo le cose mi sono affidate, soprattutto le persone. Domenica scorsa Paolo ai Corinzi diceva che ogni persona, ogni corpo umano è tempio di Dio e dimora dello Spirito Santo, “chi distrugge il Tempio di Dio, Dio distruggerà lui”. Si distrugge il Tempio quando si rende una persona schiava, quando non si rende giustizia, quando si mette a lavorare in nero, quando si costringe alla prostituzione, quando non si lotta per la giustizia per tutti, quando si considera qualcuno un essere inferiore, quando si usa violenza, quando cioè l’altro è una cosa da usare e non il tabernacolo di Dio, immagine e somiglianza dell’Altissimo.
Il bene più grande è Dio stesso, la fonte della vita, Colui dal quale tutto deriva la sua esistenza. L’origine dell’uomo e della sua dignità. Io ne sono responsabile. Nella preghiera del Padre nostro noi diciamo “sia santificato il tuo Nome” che significa che attraverso di me ogni uomo (anche il più sofferente e lontano) sappia che Tu (il Nome è la persona, in questo caso Dio stesso) sei il Santo. Sono responsabile di Dio, lo devo far conoscere, lo devo testimoniare, devo portare a Lui tutti gli uomini che incontro. Devo essere la via verso Dio e di Dio verso gli uomini. Allora è chiaro che sono responsabile (devo rispondere) non solo a Dio ma a tutti i miei fratelli e le mie sorelle se non ho portato Dio a loro e loro a Dio. Se li ho fatti restare fermi e non li ho fatti camminare. Se invece di insegnare loro a pregare li ho fermati alla recita di rosari e devozioni senza mai far incontrare loro il gusto ed il piacere dell’ascolto della Parola. Di una preghiera che è silenzioso ascolto e non tante parole dette con la testa d un’altra parte.
Il talento è la particolare bravura che Dio ha donato ad ogni uomo mettendolo nella vita. io personalmente ho il talento della parola, altri quello dell’ascolto, dell’organizzare, del fare affari, della prudenza, dell’insegnare, dello scrivere, del suonare, della bellezza, del sapere ... ognuno deve, questa volta il verbo è proprio dovere, sapere e conoscere il suo dono. Ci verrà chiesto come abbiamo usato questo dono per Dio e per i nostri fratelli. Domenica scorsa Gesù ci ha detto che ci sarà il momento del giudizio, del rendiconto oggi ci dice su che cosa saremo giudicati: chi e ciò che ci è stato affidato, che abbiamo dovuto amministrare. Neppure la mia vita è mia! La vita la renderò vissuta, usata, utile oppure morta e sepolta come il talento del servo “pigro” o meglio del servo che ha pensato solo a se stesso, ai suoi comodi, al suo benessere. Anche nella chiesa ci sono persone che non hanno a cuore il bene degli altri, neppure quello di Dio ma solo il proprio quieto vivere ed il proprio benessere. Non voglio più essere uno di questi. Anche io per non urtare sensibilità, per non dare fastidio, per non essere sempre l’eterno polemico fastidioso, per non essere sempre giudicato e condannato ho taciuto, mi sono seduto, non ho fatto quello che dovevo e mi era richiesto. Adesso basta!