1° GENNAIO 2009
mercoledì 31 dicembre 2008
COMBATTERE LA POVERTÀ, COSTRUIRE LA PACE.
1° GENNAIO 2009
giovedì 18 dicembre 2008
Maria e Giovanni (di padre Valter Arrigoni)
lunedì 8 dicembre 2008
Immacolata Concezione della Vergine Maria
Un segno che il male è sconfitto
Un segno dei tempi nuovi
Il tema dell’Immacolata è centrale per l’Avvento che prepara a rivivere il «mistero della Redenzione» in avvenimenti dove la grazia fa irruzione in modo sovrabbondante. L’Incarnazione del Verbo, l’esultanza del Precursore nel seno materno, il Magnificat, il «Gloria!» degli angeli, la gioia dei pastori, la luce dei magi, la consolazione di Simeone e Anna, la teofania al Giordano anticipano i segni dei tempi nuovi.La liturgia rende presente in mezzo alla nostra assemblea la potenza che ha preservato la Vergine dal peccato: celebra infatti nell’Eucaristia lo stesso mistero della redenzione, di cui Maria per prima ha goduto i benefici e al quale noi partecipiamo, secondo la nostra debolezza e le nostre forze.
Vangelo Lc 1,26-38
Ecco concepirai un figlio e lo darai alla luce.
Dal vangelo secondo Luca
In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.
domenica 7 dicembre 2008
Comunicato Nr. 2 - 7 Dicembre 2008
Vangelo della II Domenica di Avvento - Anno B
venerdì 5 dicembre 2008
"Tempo di Avvento, tempo di vigilanza" (di padre Valter ARRIGONI)
In questo anno liturgico che inizia con l’Avvento e che secondo il calendario della Chiesa è l’anno B il Vangelo che ci accompagna è il Vangelo di Marco. Nipote di Barnaba, Giovanni Marco segue nella prima missione lo zio e san Paolo ma ad un certo punto torna a casa e lascia i compagni di missione. Per questo motivo Paolo si oppone a Barnaba quando partono per il secondo viaggio e Barnaba vuole portare con sé il nipote. Fra Paolo e Barnaba nasce un disaccordo e si separano. La famiglia di Marco aveva seguito Gesù fin dall’inizio tant’è che Marco, ancora giovinetto, era con gli apostoli e con Gesù nell’orto degli ulivi quando Gesù fu arrestato. Nel racconto dell’arresto di Gesù infatti Marco inserisce quello che tecnicamente si chiama “sfraghìs”, cioè segno distintivo, firma. “Tutti allora, abbandonandolo, fuggirono. Un giovinetto lo seguiva, rivestito soltanto di un lenzuolo, e lo fermarono. Ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì via, nudo”. Marco parla di se stesso. Per quanto giovane era ben inserito nella primitiva comunità cristiana. Il suo racconto delle parole e dei gesti di Gesù inizia il nuovo genere letterario che prende il nome di Vangelo. Riporta i ricordi suoi e di Pietro su Gesù: Gesù è il Vangelo, la buona notizia. Gesù è la risposta di Dio a tutti, all’umanità intera. Ci sono tre affermazioni della centralità di Cristo riconosciuto come il figlio di Dio, il Vangelo, la buona notizia, Dio egli stesso. All’inizio del Vangelo troviamo l’espressione: “Buona notizia che è Gesù Cristo, Figlio di Dio”. A metà del Vangelo troviamo Pietro che afferma: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”. Alla fine del Vangelo, ai piedi della croce dove c’è Gesù morto, il centurione romano confessa: “veramente quest’uomo è il Figlio di Dio”. Gesù è venuto per tutti, ebrei e pagani. Pietro ed il centurione. Tutti. E’ ormai unanimemente accettato che il Vangelo di Marco è il primo ad essere stato scritto. E’ servito da base ai Vangeli di Matteo e Luca. Riporta i ricordi del giovane Marco che è diventato, nel frattempo, il “segretario” di Pietro. Struttura il suo racconto secondo il discorso di Pietro al centurione Cornelio, secondo il suo annuncio: Giovanni il Battista, il battesimo di Gesù e la missione in Galilea. I miracoli di Gesù fuori dalla Giudea ed infine il viaggio a Gerusalemme. L’attività a Gerusalemme. Tutto è centrato su Gesù. Qualche esegeta parla del Vangelo di Marco come del Vangelo del discepolato, il catechismo per gli adulti romani che si avvicinano alla nuova fede. Secondo me in questo racconto che Marco ci offre c’è la sua dichiarazione d’amore per Gesù. Il mettere il Cristo al centro della propria vita. Far ruotare tutto attorno a Lui. E’ la sua esperienza ed è anche quella di Pietro e di Paolo, dei suoi maestri. E’ il Vangelo che non si adegua mai né al moralismo dei giudei e neppure all’intellettualismo dei greci. Rischi che la fede nascente incontrava. Lo stesso Paolo infatti scrive ai corinzi: “annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i giudei e stoltezza per i greci”. Il Vangelo è la persona di Gesù, la sua carne, quello che ha detto e fatto. Anche nella prima domenica abbiamo sentito la parabola di un uomo che parte ed affida ai servi i suoi beni. Ma l’attenzione questa volta è sul fatto che tornerà quando meno ce lo aspettiamo. Ritornerà di certo “la sera, a mezzanotte, al canto del gallo, al mattino presto”. Il Signore viene nella notte. Le indicazioni del momento infatti sono tutte legate alla notte. Buio del mondo e della vita. Morte, disperazione, solitudine, tradimento, povertà, peccato, ingiustizie, violenze, guerre, miserie. In questa notte siamo chiamati ad essere luce nelle tenebre, sale della terra. Non si parla in queste letture del giudizio (come nelle letture delle scorse domeniche) ma del ritorno del Signore. San Paolo ci dice che abbiamo tutti i doni, le grazie dal Signore per svolgere il nostro compito di luce e sale. Il profeta Isaia ha una invocazione bellissima “se tu squarciassi i cieli i scendessi”. E Dio lo ha fatto in Gesù. Ha squarciato i cieli ed è disceso. Noi siamo testimoni di questo. Noi siamo i testimoni di questo. A noi il compito di essere per gli uomini la risposta di Dio. Il suo orecchio che ascolta, le sue mani che curano, la sua bocca che conforta. A noi il compito di essere la voce della domanda, del grido disperato dell’umanità ferita, che si leva a Dio nella preghiera. L’avvento è il tempo della carità che si curva con misericordia e tenerezza sulle pieghe degli uomini e della preghiera che grida a Dio: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi”. Nella seconda domenica sottolineo due aspetti che sono l’inizio del Vangelo di san Marco e la figura di Giovanni il precursore (nelle icone bizantine viene definito il prodromo).Il Vangelo non è un libro come superficialmente noi pensiamo ma è la persona di Gesù Cristo. Vangelo è una parola greca che significa “buona notizia”. Veniva usata per indicare la notizia della fine vittoriosa di una guerra o la nascita dell’erede al trono. Veniva accompagnata dalla distribuzione gratuita di dolci (solitamente schiacciate d’uva), di pane, di denaro. Portava con sé una gioia anche molto concreta. Marco inizia il suo Vangelo con questa frase: “Inizio del Vangelo di Gesù Cristo”. Di “Gesù Cristo” sia in greco che in italiano può voler dire “che è di Gesù Cristo”, “che parla di Gesù Cristo” (si chiama genitivo oggettivo: “la mela di Pietro”, “il romanzo dei Promessi sposi). Ma può anche significare, come in questo caso “il Vangelo che è Gesù Cristo” (si chiama genitivo soggettivo: “la città di Milano”!). Marco inizia il suo Vangelo, la sua buona notizia, la risposta ai secoli di domande degli uomini affermando che la risposta, la nascita dell’erede, la vittoria nella guerra è la persona, la carne, di Gesù. Gli ebrei attendevano la venuta del Messia che sarebbe stata preannunciata dalla figura del profeta Elia (figura che appartiene anche alla tradizione islamica con il nome di “profeta verde”). Per molti ebrei del tempo di Gesù il Battista è questa figura di Elia che annuncia la venuta del Messia. Si capisce allora perché accorrevano a lui per ricevere il battesimo, il lavacro, di penitenza. Si trattava di un rituale che prevedeva lo scendere nell’acqua del Giordano per lavarsi dai propri peccati. Torneremo sulla figura del Battista, del precursore. E’ sua la voce che grida nel deserto. Qui c’è una questione di punteggiatura. Isaia scrive: “voce di uno che grida: nel deserto preparate le vie del Signore”. Significa che tutti quelli che ascoltano devono fare deserto nella propria vita, nella loro anima. Solo nel deserto si sanno vedere le oasi, riconoscere i segni della vita presente dietro le apparenze della morte. Solo nel silenzio e nella solitudine si può sentire e riconoscere la voce di Dio. Marco invece scrive: “voce di uno che grida nel deserto: preparate le vie del Signore”. Cioè nel tempo della notte, della morte, dell’attesa, della domanda viene un profeta che annuncia la venuta del Signore. Il deserto è cioè la condizione del profeta. Potremmo dire di ogni profeta, anche nostra oggi.
Il sette dicembre festeggio i venti anni della mia ordinazione sacerdotale per le mani del Vescovo Casale. Sarò a Lourdes. Ricordatemi.
Rimando ogni festeggiamento al 14 febbraio nel ricordo del quinto anniversario della mia Professione solenne. nelle mani del Vescovo Tamburrino, come monaco diocesano. In quella occasione presenterò il mio secondo libro, “Essere amici di Gesù”. Vi farò sapere il programma.
domenica 23 novembre 2008
"La domenica di Cristo Re" (di padre Valter ARRIGONI)
Questa domenica dunque ci sono almeno tre aspetti su cui fermarci. Cristo è il re dell’universo, siamo chiamati ad adorarlo, a porre il suo trono anche nella nostra vita, nel nostro cuore e questa centralità di Cristo si vede dalle nostre azioni.
Le due premesse, che mi sembra di dover fare, sono sulla necessità di fermarci a riflettere. Sembra un tempo inutile quello della riflessione ma è invece indispensabile e la Chiesa (mater et magistra) ci chiede di fermarci a riflettere proprio prima del tempo di Avvento. Tempo forte di conversione. Quasi che questa domenica dobbiamo tracciare la strada da seguire fino a Natale. La penitenza nella spiritualità cristiana non è fine a se stessa ma è un cammino di formazione, di rieducazione della nostra persona e della nostra vita. Il termine, soprattutto quaresimale, di quaranta giorni, il numero quaranta, non indica un tempo di penitenza ma soprattutto di formazione. Ci fermiamo oggi, rivediamo la nostra vita, ci decidiamo alla conversione, scopriamo la nostra malattia spirituale e lasciamo a Dio il compito di tracciare il cammino da seguire. E dalla domenica che verrà, la prima di Avvento cominciamo a camminare su vie nuove fino all’incontro con il Signore che viene di nuovo in mezzo a noi nel Natale.
L’altra premessa fondamentale riguarda i comportamenti sui quali saremo giudicati. Le opere di misericordia che ci invitano, ci obbligano ad amare “il più piccolo dei fratelli”. Ci sono due tentazioni nella lettura e nella spiegazione delle parole di Gesù; da una parte l’eccessiva spiritualizzazione delle categorie dei poveri cui fa riferimento. Affamati, assetati, nudi, forestieri, malati e carcerati. Alcuni vogliono leggere in queste parole solo delle situazioni dello spirito, come se non esistessero uomini che sono davvero affamati, assetati, nudi, forestieri, carcerati nelle prigioni e non prigionieri dei loro vizi, malati negli ospedali e non come conseguenza dei loro peccati. Questi “spiritualisti” si lavano le mani davanti al male del mondo, alle sofferenze degli uomini. Alimentano e giustificano così la loro avarizia, il loro egoismo, l’impegno profuso nella difesa del loro benessere, del benessere della loro famiglia, dei figli, della patria. L’altro rischio è quello opposto cioè quello di coloro che leggono queste parole solo come aiuto alla carne dell’uomo, vedono solo l’orizzonte della terra e del mondo. Dimenticano che l’uomo è anche spirito, intelligenza e dignità.
Il brano del Vangelo viene dal capitolo XXV di Matteo. E’ il capitolo che ci ha accompagnato in queste ultime tre domeniche. La parabola delle vergine sagge e delle vergini stolte ci è ha detto che dobbiamo vigilare perché lo sposo, il Signore, torna quando non ce lo aspettiamo. Ci viene chiesto di avere abbastanza olio, preghiera e carità, fede e speranza per affrontare la notte e farci trovare pronti. La scorsa domenica il Vangelo dei talenti ci ha insegnato che ci sarà un giudizio perché tutto quanto ci è stato dato in affidamento, in consegna, anche la nostra vita, il mondo, le persone che incontriamo. Tutto ci è affidato e ci vengono dati a talenti per compiere bene l’opera. Talenti che dobbiamo far fruttare senza paura e senza pigrizia. oggi ci viene detto quale è il contenuto del giudizio, le domande alle quali con le opere della nostra vita abbiamo risposto. Sono domande concrete, sono fatti che o ci sono o non ci sono. Domande alle quali possiamo rispondere solo con un sì o un no. “Il vostro parlare sia sì sì, no no, il resto viene dal diavolo”.Qui non si tratta di fare discussioni accademiche. Il giudice è Dio stesso. Non un filosofo o un avvocato.
Il giudizio al quale Matteo si riferisce è il giudizio finale. Fino ad allora c’è il purgatorio come luogo nel quale possiamo ancora purificarci. Dopo ci sarà solo il paradiso o l’inferno.
Finisce allora il tempo intermedio che passa fra la venuta di Gesù sulla terra ed il suo ritorno nella gloria. Il tempo del giudizio particolare che attende ogni uomo al momento della morte. Il giudizio al quale si riferisce Matteo è quello universale, finale.
La pagina del Vangelo inizia con una descrizione apocalittica, gloriosa, densa di immagini, di simboli. “Quando il Figlio dell’uomo verrà … seduto su un trono … con gli angeli e i giusti”. il Figlio dell’uomo fino al profeta Daniele ed alle sue visioni significa l’uomo stesso (“che cosa è l’uomo perché te ne ricordi o il figlio dell’uomo perché te ne dia pensiero?”) ma con il profeta Daniele questa immagine viene ad indicare una creatura divina tanto che quando durante il suo processo Gesù la applicherà a se stesso susciterà scandalo e la reazione del Sommo Sacerdote ch si straccia le vesti. anche le altre immagini usate da Matteo vengono dal cerimoniale di un re d’oriente nella sua corte, nella reggia, nella sala del trono.
“E saranno riunite davanti a lui tutte le genti”. Il giudizio è universale riguarda tutte le genti non solo ebrei e cristiani. Dio è il Dio di tutti gli uomini, Gesù salva tutta l’umanità. Lo ripetiamo ogni volta nella consacrazione quando diciamo del pane che diventa carne di Cristo “prendete e mangiatene tutti” e sul calice del vino “bevetene tutti … versato per voi e per tutti”. Gesù è il salvatore, la via, la vita e la verità di ogni essere umano anche del più lontano da lui.
Il criterio del giudizio è universale. Tutti gli uomini, qualunque sia la loro razza, etnia, religione, qualunque sia il loro credo filosofico, politico, ideologico, sono uomini se amano. le categorie delle quali parla Gesù sono universali. Affamati ed assetati rappresentano i bisogni essenziali dell’umanità che pur tuttavia vengono negati ad alcuni. Nudi e forestieri sono il segno della dignità di chi ha lavoro e casa e dell’umiliazione di coloro che non hanno di che coprirsi ed un tetto sotto cui ripararsi. Infine malati e carcerati sono gli emarginati, gli esclusi coloro che non appartengono a nessuno. Al tempo di Gesù si pensava che la malattia fosse una maledizione di Dio per i peccati commessi. Il malato era escluso come colui che si trovava in carcere.
E’ chiaro per Gesù che questa attenzione all’uomo, alla dignità della persona è così valida per tutti che i giusti, coloro che fanno le opere di misericordia non le fanno per amore di Gesù. Infatti affermano di non avere mai incontrato il Signore.”Signore quando mai ti abbiamo veduto affamato … assetato … nudo … forestiero … malato … in carcere?” Cioè non abbiamo amato il povero per amare te ma perché ci muovevano tenerezza e compassione per l’uomo, per l’essere umano, per la sua dignità. E Gesù dirà loro “ogni cosa che farete al più piccolo dei miei la fate a me”: Non si tratta qui di in Dio solidale col povero, difensore dell’orfano e della vedova, portatore d libertà per il prigioniero, di vista per il cieco ma di Dio che si identifica col povero. “Io, Gesù, il tuo Dio, quello che adori nei tabernacoli, nelle processioni sono il carcerato, il malato, il forestiero”. “Ecco io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura … io stesso giudicherò”.
Lascio alla fine di questa meditazione una domanda provocatoria. Che cosa significa amare il prossimo? Cosa vuol dire carità? come aiutare davvero il forestiero? l’ammalato? Il carcerato? dobbiamo riflettere, secondo me, sul vero significato della carità: I pochi spiccioli che diamo per tacitare le nostre coscienze, per sentirci giusti non sono la vera carità. un proverbio cinese dice che all’affamato che ti chiede un pesce tu devi dare una canna da pesca ed insegnargli a pescare. Agli zingari, ai rumeni, ai neri che si trovano agli incroci delle nostre strade a chiedere la carità (non dovremmo mai usare questo termine per al posto di offerta) gli spiccioli che diamo non cambiano la situazione, non la risolvono ma li lasciano senza dignità. La vera, più grande, utile carità è ridare ad ogni uomo la sua dignità di immagine e somiglianza con Dio. per questo Gesù si identifica con ogni uomo, soprattutto il più piccolo, quello al quale è stata tolta la dignità.
venerdì 21 novembre 2008
"La farfalla materialista" (di Angela DELCURATOLO)
Che dire dunque? Direi che troppe "farfalle materialiste" prevalgono nel mondo...Ci impongono le loro idee "razionali" come verità e certezze...Anche io facevo parte della categoria di quelle "farfalle"...Ma poi, grazie a Dio, qualcosa è cambiato...anzi tutto è cambiato...la Fede ha preso il posto del materialismo...e devo dire che la vita prende una forma decisamente migliore!
Angela Delcuratolo - Broni (PV)
lunedì 17 novembre 2008
"La fede e la legge" (di padre Valter ARRIGONI)
“La Legge ed i Profeti” sono infatti un modo per indicare tutta la Bibbia, l’Antico Testamento, per gli ebrei.
Sono solo due i suggerimenti che vi propongo per la riflessione: molti sono tentati di ridurre la fede alla legge, all’osservanza formale di alcune regole; ma che cosa significa la parola “amore”?
La riduzione della fede, della religione (fede organizzata) alla legge, ad un insieme di precetti, di osservanze formali era il peccato che Gesù stesso contestava ai farisei. Diceva loro che per rispetto delle regole dimenticavano gli uomini. Quasi che Dio fosse solo interessato al culto della sua “persona” a scapito dell’amore fraterno, della carità verso i poveri, i deboli (nei salmi troviamo le categorie degli orfani e delle vedove come simbolo di tutti i poveri). Gesù è stato mandato dal Padre per rivelare il suo vero volto, il suo cuore, il cuore della sua legge e della preghiera. Cosa vuol dire cioè essere uomini di Dio, secondo il suo cuore. Cosa fare? Come comportarsi? Come pensare? Come essere? Siamo chiamati a convertirci cioè a cambiare il nostro modo di essere, di pensare, pregare, agire. Non più secondo quello che pensiamo noi o come ci hanno educati ma essere, pensare, agire, pregare come vuole Dio. Ci sono troppi farisei fra di noi. Non solo (anche, purtroppo) nel senso di ipocriti, falsi, pettegoli ...) ma soprattutto gente convinta che le fede, l’esperienza gioiosa di Dio sia solo riducibile all’osservanza della legge. La fede è per prima cosa amore di Dio e del prossimo. Prima e forse unica.
Ma qui viene la seconda riflessione: cosa significa amare?
Oggi mi fermo solo su un aspetto di questa parola che è immensa nei suoi contenuti. D’altra parte “amore” è un nome di Dio. Nel meditare oggi su questa parola ho colto questa aspetto:amare è mettere l’altro al centro della tua vita. Non dargli i ritagli, le frattaglie del tuo tempo, dei tuoi sentimenti, del tuo cuore, della tua vita (se ho tempo ... se mi resta qualcosa ... dopo tutto e tutti vieni anche tu ... prima devo pensare a me stesso ...). Gesù nel mettere sullo stesso piano Dio ed il prossimo ci insegna che Dio stesso esce da se stesso e pone al centro della sua vita, del suo cuore, della sua passione noi, gli uomini, fino a dare suo Figlio, il suo unico Figlio, per noi.
Andare verso Dio è uscire dal mondo dove io sono il centro e mettere al centro un Altro e gli altri.
sabato 15 novembre 2008
"Fratelli ovunque" (Gabriella, Francesco, Giovanni e Raffaele)
Questo semplice concetto ci sembra vero in rapporto all'esperienza che stiamo vivendo in questo periodo, che per noi è occasione di crescita ma anche di scelte più precise per la vita e la relazione con i fratelli. Ed è vero anche perchè le persone le porti soprattutto nel cuore e da lì, ovunque le incontri, quello diventa un luogo speciale; ciò può valere anche per una "compagnia" di persone, caratterizzata cioè dall'amicizia, guidata dal proprio pastore, sacerdote, così come Gesù stesso ci ha insegnato con la sua vita.
La casa di preghiera, la "casa del Signore",nella chiesa, può essere forse anche questo. A volte invece siamo tentati di viverla come un luogo dove andiamo per prender posto, presi da noi stessi tanto da non accorgerci degli altri; o dove andare a tutti i costi, per assolvere un compito, ricoprire un determinato ruolo, a volte passando oltre se un tuo prossimo è in difficoltà ma in quel momento costituisce un intralcio.
Gesù ci ha messo in guardia dai tanti possibili comportamenti sbagliati, e ci ha ricordato che "la mia casa sarà chiamata casa di preghiera ma voi ne fate una spelonca di ladri".
Ha denunciato con forza l'incongruenza e vanità di alcuni atteggiamenti, svelando l'ipocrisia che ci fa rinnegare ciò che più conta rispetto alle pratiche esteriori, e cioè "la giustizia, la misericordia e la fedeltà". Questo tanto più se il danno ricade anche indirettamente su chi è piccolo, o in difficoltà o nella prova, e anche su chi è ancora lontano e ha bisogno più di noi.
Quando Gesù parla agli scribi e farisei è molto duro e le sue parole fanno riflettere su noi stessi al fine di vigilare affinchè fuori e dentro la casa di preghiera non si debba voltare le spalle alle persone, tradire i valori umani e cristiani: ad esempio la lealtà e fedeltà nell'amicizia, o la fiducia, per una volontà di autoaffermazione. In questo viene meno la semplicità di un comportamento più giusto che deriva dall'obbedienza a chi sta sopra di noi, il Signore e poi il pastore suo ministro, anche dove significa accettare qualcosa di diverso rispetto a quello che si aveva pensato e si vorrebbe per se stessi.
La lezione di Gesù e di chi ci insegna a seguirlo volendogli bene, è però sempre questa: "rinnegare, perdere, portare", cioè rinnegare se stessi, perdere la propria vita, portare la croce ogni giorno. Spesso non è facile ma speriamo di riuscire almeno un po' in questo con l'aiuto di Gesù e Maria.
Gabriella Gattolin, Giovanni, Francesco e Raffaele Spezia
"La domenica dell'abito adatto" (di padre Valter ARRIGONI)
Ma c’è una condizione!
Ogni dono di Dio non ci viene imposto ma è sotto la condizione della libertà. Non sono suo per caso ma perché lo voglio.
E’ il senso della parabola che chiude questo ciclo sul Regno di Dio e su quali sono i fondamenti di questo Regno. Anzitutto sulla misericordia. Tre parabole dove si parlava della vigna di Dio che abbiamo chiarito che è un modo per intendere Israele (gli abitanti di Giuda), la Chiesa che è il nuovo popolo di Dio, l’anima di ciascuno di noi al quale è rivolta questa Parola che deve essere ascoltata, capita, amata, messa in atto. Nella prima parabola Gesù ci dice che la salvezza (il salario), il paradiso è aperto a tutti, anche a chi arriva all’ultima ora. Per chi ha cominciato a lavorare fin dall’inizio della vita il premio è già qui, ora, in questo mondo ed in questa vita ed è la gioia di lavorare per Dio. nella seconda domenica Gesù ci narra di due fratelli, uno che dice ed uno che fa. Chiarisce, definisce, che la volontà del Padre suo e nostro non va detta a parole ma fatta, compiuta nei gesti, negli atti, nelle scelte. Taci e fai! La terza domenica della vigna Gesù parla di se stesso come del Figlio mandato dal Padre a riscuotere l’affitto. Viene il momento di quello che i latini chiamavano il “redde rationem”. Dio ci ha affidato il mondo cosa ne abbiamo fatto? Dio ci ha affidato ogni uomo come lo abbiamo accolto? Dio si è consegnato nelle nostre mani come lo abbiamo trattato? Viene il momento per tutti nel quale ci dobbiamo mettere di fronte con verità, anche cruda, adulta, senza veli né parole illusorie, la nostra vita e tutto quello che ne fa parte (tempo, soldi, lavoro, famiglia, persone …)e rispondere se siamo anche noi come i vignaioli omicidi. Se abbiamo anche noi ucciso il figlio portandolo fuori dalla nostra vigna, dalla nostra vita, per impadronirci di tutto tagliando fuori Dio. Se ci siamo uccisi, siamo suicidi. Il Papa diceva proprio settimana scorsa che un uomo senza Dio è morto, non vive.
Per fortuna la parabola dei vignaioli omicidi è una bugia che Gesù che dice per scuoterci. Nella realtà non ha fatto quello che lì dice. Non ha ucciso tutti ma è morto lui per noi.
Oggi però pone una condizione per la nostra salvezza. L’unica condizione che dipende totalmente, solamente, da ciascuno di noi: la mia personale, libera, totale, radicale adesione al suo progetto. La veste dell’uomo clandestinamente entrato al banchetto è la sua adesione, la sua volontà, la sua libertà, la scelta fondamentale della sua vita.
Altrimenti non sarebbe comprensibile questa parabola.
Ancora una volta c’è un re, Dio, il Re dell’universo, il Signore dei Signori. In altre parabole si usa l’immagine del padrone della vigna, del ricco commerciante, del signore della casa con i suoi servi. Ancora una volta c’è un progetto di gioia e di salvezza al quale sono invitati i suoi amici. Simboleggiati dai vari protagonisti delle parabole che ci siamo sentito dire: il figlio maggiore che dice di sì e poi non fa; gli operai della prima ora che sono invidiosi e gelosi; i vignaioli che uccidono i servi- profeti e il figlio- Gesù. Tutti questi protagonisti come gli invitati al banchetto di nozze sono il popolo di Israele che ha rifiutato Gesù. Allora il Re chiama gli altri al suo banchetto. Gli esclusi, quelli che si pensava non fossero compresi nel piano di salvezza di YHWH. “Andate ai crocicchi delle strade e prendete tutti quelli che troverete”. Tutti, presi nella loro attività ordinaria. Tutti senza che se lo aspettassero. Così come erano. Allora perché il Re si arrabbia quando ne vede uno senza l’abito nuziale. Certamente nessuno era in giro quel giorno per le strade vestito per andare a nozze. L’invito è gratuito ma soprattutto a sorpresa, assolutamente inatteso. Ci coglie (perché quegli invitati al banchetto di nozze siamo noi!)impreparati!. Oppure no? Cosa significa l’abito. Cosa ci è chiesto per entrare alle nozze. Cosa ci è chiesto per salvarci? In paradiso chi entra? L’abito che Dio vede non è quello che indossiamo sopra di noi, non è ciò che si vede fuori ma è quello che siamo dentro. Dio, ci insegna Samuele, non guarda ciò che guardano gli uomini ma vede il cuore di ogni uomo, legge dentro. L’abito nuziale, l’abito adatto per entrare al banchetto di nozze, per essere salvati, per entrare in paradiso è la nostra coscienza. E nella nostra coscienza il desiderio di Dio. Il riconoscimento umile dei nostri peccati e del bisogno di essere salvati. La libera adesione alla volontà che Dio ha di salvarci. La tradizione usa il termine “conversione”. Riconosco di camminare su una sentiero sbagliato, che mi allontana dal Padre mio e voglio tornare a lui. Nella mia fragilità, della quale sono cosciente e ne chiedo perdono, so quanto è difficile ma Dio è con me. L’ospite inadatto è colui che si trova per caso nella sala senza volerlo, senza adesione libera, totale, personale. Fuor di metafora è come se uno fosse cattolico solo perché è nato in Italia e, per caso, per la volontà di altri, è stato battezzato senza mai però accettare e vivere le conseguenze di questo battesimo. Senza mai appartenere coscientemente a Dio ed alla sua Chiesa. È entrato nella sala perché sono entrati anche gli altri ma il suo cuore, la sua veste, la sua coscienza sono altrove, sono fuori da lì. Possiamo anche essere preti, suore, eremiti, catechisti, insegnanti di religione. Possiamo anche essere dei genitori che hanno costretto i figli al catechismo ed ai sacramenti ma anche a noi può accadere quello che è successo a quell’uomo. Dio entra in noi e non si ritrova. Diciamo, parliamo, ma non siamo. Neppure lontanamente vogliamo aprire a Dio, farlo entrare. Essere suoi. Il giudizio al quale siamo chiamati è su chi siamo veramente, sulle opere che compiamo, sulla nostra anima, sul cuore, sulla vita, sulla volontà, sulle azioni.
martedì 11 novembre 2008
"Niente è mio" (di padre Valter ARRIGONI)
Il ricordo dei morti ci porta a riflettere anche sulla nostra morte. E la morte è l’altra parte della vita così come la notte è per metà del giorno che finisce ma per l’altra metà del giorno che inizia, del nuovo giorno. Anche la fine dell’anno liturgico porta la Chiesa e la Chiesa porta noi a meditare sul giudizio finale. Sul fatto che dovremo riconsegnare ciò che ci è stato affidato ma non è nostro.
Il Vangelo di Matteo, che come abbiamo spesso ricordato è un ebreo, che pensa da ebreo e che ha come riferimento culturale e religioso il mondo ebraico è diviso in cinque libri (il Pentateuco i primi cinque libri della Bibbia e per alcuni ebrei l’unica Bibbia) a loro volta divisi in due parti: i discorsi di Gesù ed i fatti del Signore (apoftegmata kai pragmata). Dio prima dice e poi realizza ciò che dice. Come accade anche nella Messa dove prima c’è la liturgia della Parola e poi il fatto, la liturgia eucaristica. Quello che inizia con il capitolo XXV è il discorso escatologico cioè che ha per argomento le cose finali, le ultime realtà. Dopo la morte del singolo secondo la teologia cattolica c’è un giudizio parziale in conseguenza del quale possiamo andare in Purgatorio. Un tempo che ci purifica, ci educa a vedere Dio, come Dio. quasi un tempo donatoci dopo la morte nel quale prepararci alla salvezza. Alla fine del tempo e del mondo ci sarà il giudizio universale dopo il quale non esisterà più il Purgatorio, non ci saranno che l’inferno (forse vuoto!) ed il Paradiso. Nel capitolo XXV di Matteo ci sono tre racconti: delle vergini sagge e delle vergini stolte, che è più giusto chiamare dello sposo che arriva all’improvviso; la parabola dei talenti, che è quella sulla quale ci fermiamo a riflettere in questa penultima domenica del tempo ordinario ed infine la descrizione del giudizio universale, che sarà il Vangelo della festa di Cristo Re.
Qualche giorno fa, il venerdì della XXXI settimana, abbiamo ascoltato la parabola dell’amministratore disonesto. Raccontava di un amministratore che era stato accusato di sperperare i beni del padrone e per questo veniva licenziato. Allora furbamente chiama i debitori del padrone e riduce il loro debito creando così con loro un rapporto di gratitudine che lo aiuterà quando sarà senza lavoro. Gesù finisce il discorso lodando l’astuzia dell’amministratore disonesto. Molti sono rimasti quasi scandalizzati al sentire questa finale. Ma se la capiamo come un invito ad usare nelle cose di Dio la stessa furbizia, abilità, scaltrezza che mettiamo nelle cose del mondo. Se fossimo nelle cose di Dio (Parola, Sacramenti, Carità ...) adulti e bravi come lo siamo con i soldi, il lavoro, la carriera, gli investimenti, gli acquisti! Invece sembra che più diventiamo adulti più siamo lontani da Gesù. Relegato a qualcosa della nostra infanzia. Pochi sono cresciuti nella fede come sono diventati adulti, magari di successo, nelle cose del mondo! Ma di questa parabola sottolineo il ripetersi sette volte del termine amministratore, amministrare, amministrazione. Introduce alla parabola di oggi che inizia raccontando di un uomo che partendo per un viaggio chiama i suoi servi (dieci, come le vergini, nel racconto parallelo di Luca: dieci che significa tutti gli uomini, buoni e cattivi) ed affida loro “i suoi beni”.
La vita, il mondo, le persone che incontriamo, le cose. Gli animali, la natura, l’aria, l’acqua, tutto quello che è creato e che io vedo e tocco appartiene al Signore, è suo bene. Io sono solo l’amministratore ed un giorno il Signore torna, all’improvviso come è accaduto per lo sposo della parabola delle vergini, e mi chiede che cosa ne ho fatto dei suoi beni. Le domande che questa parabola mi pone e che sottopongo a ciascuno di voi sono: quali sono i beni di cui sono responsabile? Quale è il bene più prezioso? Per chi sono responsabile oltre che per il Signore? Quali sono i miei talenti cioè gli strumenti che Dio mi ha donato e dei quali dovrò rendere conto soprattutto per come li ho usati nel custodire “i suoi beni”?
I suoi beni che mi sono affidati li ho scritti prima. Dice un proverbio indiano che il mondo non lo riceviamo in eredità da chi è venuto prima di noi ma che lo abbiamo in consegna per chi verrà dopo di noi. L’ecologismo, la giustizia, il mondo intero non sono l’interesse di pochi ma il cuore di tutti. La lotta contro l’inquinamento, e a Foggia e provincia ne sappiamo qualcosa (anche se da qualche tempo tutto tace !!!! forse il denaro, tantissimo, compra anche le istituzioni e la verità, la libertà?)non è di pochi anarchici ma di tutti perché tutti respiriamo, beviamo, mangiamo e ci troviamo col cancro. Ma non solo le cose mi sono affidate, soprattutto le persone. Domenica scorsa Paolo ai Corinzi diceva che ogni persona, ogni corpo umano è tempio di Dio e dimora dello Spirito Santo, “chi distrugge il Tempio di Dio, Dio distruggerà lui”. Si distrugge il Tempio quando si rende una persona schiava, quando non si rende giustizia, quando si mette a lavorare in nero, quando si costringe alla prostituzione, quando non si lotta per la giustizia per tutti, quando si considera qualcuno un essere inferiore, quando si usa violenza, quando cioè l’altro è una cosa da usare e non il tabernacolo di Dio, immagine e somiglianza dell’Altissimo.
Il bene più grande è Dio stesso, la fonte della vita, Colui dal quale tutto deriva la sua esistenza. L’origine dell’uomo e della sua dignità. Io ne sono responsabile. Nella preghiera del Padre nostro noi diciamo “sia santificato il tuo Nome” che significa che attraverso di me ogni uomo (anche il più sofferente e lontano) sappia che Tu (il Nome è la persona, in questo caso Dio stesso) sei il Santo. Sono responsabile di Dio, lo devo far conoscere, lo devo testimoniare, devo portare a Lui tutti gli uomini che incontro. Devo essere la via verso Dio e di Dio verso gli uomini. Allora è chiaro che sono responsabile (devo rispondere) non solo a Dio ma a tutti i miei fratelli e le mie sorelle se non ho portato Dio a loro e loro a Dio. Se li ho fatti restare fermi e non li ho fatti camminare. Se invece di insegnare loro a pregare li ho fermati alla recita di rosari e devozioni senza mai far incontrare loro il gusto ed il piacere dell’ascolto della Parola. Di una preghiera che è silenzioso ascolto e non tante parole dette con la testa d un’altra parte.
Il talento è la particolare bravura che Dio ha donato ad ogni uomo mettendolo nella vita. io personalmente ho il talento della parola, altri quello dell’ascolto, dell’organizzare, del fare affari, della prudenza, dell’insegnare, dello scrivere, del suonare, della bellezza, del sapere ... ognuno deve, questa volta il verbo è proprio dovere, sapere e conoscere il suo dono. Ci verrà chiesto come abbiamo usato questo dono per Dio e per i nostri fratelli. Domenica scorsa Gesù ci ha detto che ci sarà il momento del giudizio, del rendiconto oggi ci dice su che cosa saremo giudicati: chi e ciò che ci è stato affidato, che abbiamo dovuto amministrare. Neppure la mia vita è mia! La vita la renderò vissuta, usata, utile oppure morta e sepolta come il talento del servo “pigro” o meglio del servo che ha pensato solo a se stesso, ai suoi comodi, al suo benessere. Anche nella chiesa ci sono persone che non hanno a cuore il bene degli altri, neppure quello di Dio ma solo il proprio quieto vivere ed il proprio benessere. Non voglio più essere uno di questi. Anche io per non urtare sensibilità, per non dare fastidio, per non essere sempre l’eterno polemico fastidioso, per non essere sempre giudicato e condannato ho taciuto, mi sono seduto, non ho fatto quello che dovevo e mi era richiesto. Adesso basta!