mercoledì 30 luglio 2008

La vera saggezza (di Padre Valter ARRIGONI)


Un giorno mentre Gesù camminava con i suoi discepoli si avvicinò a lui un giovane. Giovane perché vivo, desideroso di qualcosa di grande per la sua vita. Poteva anche avere novanta anni ma era giovane perché aveva una domanda, era alla ricerca. Essere giovani non è questione di età ma di apertura all’ignoto, di disponibilità al cambiamento. Uno può avere quindici anni ed essere già vecchio dentro. Si avvicinò dunque a Gesù e Gesù fissatolo lo amò. Lo prese nel suo cuore, aveva a cuore la sua esistenza, la sua vita, era pieno di affetto per lui. Leggeva nell’avvicinarsi di quel giovane una richiesta vera che nasceva dal più profondo dell’essere. Gli chiese che cosa volesse ed il giovane gli disse: “Maestro buono, cosa devo fare per essere felice?”. Lo chiama buono pur non conoscendolo se non per sentito dire ma gli era chiaro che Gesù aveva la risposta alle sua domande. Gli era chiaro che l’incontro con Gesù era l’unica, l’ultima possibilità data alla sua vita di uscire dalla banale quotidianità per entrare nell’eroico vivere che dà gusto. Gesù gli fa l’elenco dei comandamenti, la via fino ad allora seguita da tutti per accontentare Dio, per garantirsi un posto in cielo. Infatti il giovane, che nel vangelo rimane anonimo perché può essere ogni uomo, ciascuno di noi, dice a Gesù:”queste cose le ho sempre fatte, ho osservato la Legge, ma sono ancora infelice, mi rimane dentro una scontentezza”. Gesù allora lo guarda di nuovo, lo ama, vede dentro di lui e gli risponde:”Una cosa sola ti manca: vai vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri poi vieni e seguimi”. Una richiesta assurda! Tanto che il giovane, diventato all’improvviso vecchio, anzi morto, se ne va triste. L’evangelista aggiunge la causa di questa infelicità dicendo che era ricco, aveva molti beni. O forse molti beni avevano lui.
Da quando sono nell’eremo mi sento come Pietro nel momento che è passato fra la sua domanda a Gesù di farlo camminare, anche lui, sull’acqua e quando ha mosso i primi passi e la paura lo faceva annegare. Mi sembra di camminare su un precipizio non sul bordo dello strapiombo ma proprio sopra. Mi è chiesto di fidarmi ed io scopro di avere poca fede. Poca fiducia in Dio. io, monaco, forse eremita. Io uomo di Dio. eppure questo momento ha una fascino che nella mia vita c’è stato solo nell’adolescenza quando mi sono innamorato di Gesù e quando ho deciso di lasciare l’insegnamento, il posto e lo stipendio sicuro per andare dietro a Lui. Dopo tutto è diventato abitudine. La sicurezza era data dal ruolo di prete. Dagli amici che avevo. Se Gesù mi avesse chiesto di nuovo di lasciare tutto per lui avrei reagito come il giovane ricco. Fino ad adesso! Ora non più. Non ho più niente e nessuno che prende nel mia cuore e nella mia vita il posto di Gesù. Adesso sono di nuovo vivo. Pronto di nuovo a partire per una nuova tappa della vita. Un nuovo segmento dell’esistenza. Forse l’ultimo. Ma voglio che questo tempo che mi resta sia tutto di Dio. Mi piace la frase di san Paolo quando scrive “non sono più io che vivo ma Cristo vive in me”. Tutto questo non è eroico, non è santo, non è frutto di esaltazione ma dell’esperienza gioiosa, nel profondo senso della gioia, di Gesù riposto al centro della mia vita di uomo suo. Mi è capitato di dover giustificare questa mia scelta e dicevo che volevo rincentrare la mia vita in Gesù. Mi sentivo come tante tessere di un mosaico senza un disegno che desse loro un senso. Avendo tolto Gesù dal centro rimaneva un vuoto incolmabile che ho cercato di colmare trovando solo morte, disperazione. Chiedevo alle creature di prendere il posto del Creatore. Di amarmi, di farmi sentire amato. Folle! Infelice! Deluso sempre e da tutti! Ma adesso c’è un'altra ragione del mio essere qui, eremita, solo ed in silenzio. Circondato, sono le dieci di sera (di solito alle nove vado a dormire perché mi svegli di notte per pregare), dalle cicale, dal vento, dalle fronde che frusciano. Vicino all’eremo c’è un piccolissimo cimitero, lo apro tutte le mattine e lo vado a chiudere la sera. Mi fermo a parlare con gli amici che dormono (in greco cimitero significa dormitorio) sul senso della vita e su ciò che davvero conta. Adesso tutto mi è chiaro. La ragione adesso non è rincentrare ma la possibile gioia. La vera pace. Non di testa, non una idea, non un discorso, anche se fatto bene, sulla fede, la religione, la preghiera. Ma la gioia dentro. La pace finalmente.
Ed in questi giorni il Signore mi chiarisce quello che sto vivendo anche con la sua Parola come quella di oggi. Un cercatore di perle ed un contadino trovano l’uno una perla preziosa e l’altro un tesoro. Vanno, pieni di gioia, vendono tutto e comprano l’uno la perla e l’altro il campo dove c’è il tesoro. Non si può seguire Cristo se non si è mossi da questa gioia di aver trovato l’unica pace possibile, l’unica vita possibile, l’unico tesoro. Se pensiamo che questa sia una esagerazione. Se pensiamo che quando Gesù ci chiede di lasciare tutto e di seguirlo sia una pretesa assurda, un fondamentalismo, una fisima giovanile, allora non abbiamo incontrato Gesù. Possiamo andare a Messa, andare a Lourdes o a Medjugorie o dove appare la Madonna, ma non abbiamo incontrato Dio. quello che seguiamo siamo ancora noi, i nostri progetti, i bisogni, le voglie, le idee anche quelle religiose.
Quanti in questi tempi di vacanze non vanno mai a messa? Conosco persone che si dicono uomini di fede, che leggono ogni giorno il vangelo e che non hanno neppure dato ai figli una formazione cristiana. Dopo la prima comunione, forse fatta per ostentare la loro ricchezza scegliendo il ristorante chic, la bomboniera di lusso,non hanno più portato al catechismo i figli per la cresima e neppure a messa la domenica. Una domenica c’è la partita, l’altra il figlio non ha voglia, l’altra la mamma dormiva, l’altra c’era la festa degli amici. Quando guardo questi giovanotti mi sembrano delle belle bestie da esposizione. Vestiti firmati, possono perché sono ricchi, capelli col taglio all’ultima moda, scarpette giuste. Bestie da esposizione. E quando vedo le loro madri guardarli soddisfatte perché “acciaffano” vedo bestie da monta.
Cosa gli abbiamo trasmesso? Cosa gli abbiamo dato per affrontare la vita?
Io piango la sera. Sì piango. Non sui miei peccati, e ne ho tanti. Non sul male fatto contro Dio e contro me stesso ma sull’umanità. Sul dolore ed è tanto dell’umanità. Dei poveri, dei drogati, delle ragazze costrette a prostituirsi (e non solo sulle strade ma anche nelle case per bene per essere accettate nel “branco”), dei rom, degli extracomunitari, dei carcerati, dei miei figli, dei miei amici. Ma piango anche per tutti i ragazzi ai quali non ho dato la gioia in questi anni. Non ho testimoniato che incontrare Gesù e dargli tutto, e vivere per Lui, come Lui non è una cosa da bizzochi o da mezzi uomini ma da giovani vivi. Che amano la vita. Che vivono. Perché non riesco a chiamare vita il passare le serate a decidere cosa fare la notte. E poi la notte a fare i cretini bevendo, drogandosi, facendo del sesso.
Forse dovrei avere il coraggio di dire al Signore “prendi me, sono io il colpevole di tutto questo”. Sono colpevole perché non mi sono lasciato fare da Dio, non mi sono lasciato riempire di Lui. Ho avuto paura. Ci sono momenti anche adesso che mi viene paura. Lasciare le sicurezze di un ruolo, di persone che mi stimano, delle cose tante e belle di cui mi sono circondato.
Poter dire il Padre nostro e non sentirmi giudicato, non sentirmi un ipocrita che dice senza convinzione “sia fatta la Tua volontà … perdonami se io perdono … dammi il necessario di ogni giorno e non di più”. La richiesta del pane quotidiano infatti è la richiesta del necessario. Ma io stesso ad una certo punto non ho più saputo fermarmi al necessario non l’ho più neppure saputo definire.
Già cosa è necessario? Cosa è indispensabile? Cosa è utile? Cosa è superfluo? Cosa è inutile? Molti genitori lavorano per permettere ai figli l’inutile, il superfluo. Poi ci stupiamo perché vogliono sempre di più e non sanno dare niente. Poveri figli di questi genitori.
Io sono colpevole perché non ho mai detto queste cose neppure a chi mi era amico. Adesso non ho più nessun amico e sono libero di dirle. Chi mi vuole mi deve prendere così. Io non cedo più.
Forse non saprò raggiungere l’infinito ma comunque non mi tirerò mai più indietro. Ne va della mia gioia. E ci tengo.


Valter Arrigoni


martedì 29 luglio 2008

Santa Marta di Betania - 29 Luglio


Marta è la sorella di Maria e di Lazzaro di Betania. Nella loro casa ospitale Gesù amava sostare durante la predicazione in Giudea. In occasione di una di queste visite conosciamo Marta. Il Vangelo ce la presenta come la donna di casa, sollecita e indaffarata per accogliere degnamente il gradito ospite, mentre la sorella Maria preferisce starsene quieta in ascolto delle parole del Maestro. L'avvilita e incompresa professione di massaia è riscattata da questa santa fattiva di nome Marta, che vuol dire semplicemente «signora». Marta ricompare nel Vangelo nel drammatico episodio della risurrezione di Lazzaro, dove implicitamente domanda il miracolo con una semplice e stupenda professione di fede nella onnipotenza del Salvatore, nella risurrezione dei morti e nella divinità di Cristo, e durante un banchetto al quale partecipa lo stesso Lazzaro, da poco risuscitato, e anche questa volta ci si presenta in veste di donna tuttofare. I primi a dedicare una celebrazione liturgica a S. Marta furono i francescani, nel 1262. (Avvenire)


Patronato: Casalinghe, Domestiche, Albergatori, Osti, Cuochi, Cognate


Etimologia: Marta = palma, dall'aramaico o variante di Maria

Emblema: Chiavi, Mestolo, Scopa, Drago

Martirologio Romano: Memoria di santa Marta, che a Betania vicino a Gerusalemme accolse nella sua casa il Signore Gesù e, alla morte del fratello, professò: «Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».


Marta è la sorella di Maria e di Lazzaro di Betania, un villaggio a circa tre chilometri da Gerusalemme. Nella loro casa ospitale Gesù amava sostare durante la predicazione in Giudea. In occasione di una di queste visite compare per la prima volta Marta. Il Vangelo ce la presenta come la donna di casa, sollecita e indaffarata per accogliere degnamente il gradito ospite, mentre la sorella Maria preferisce starsene quieta in ascolto delle parole del Maestro. Non ci stupisce quindi il rimprovero che Marta muove a Maria: "Signore, non t'importa che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti".L'amabile risposta di Gesù può suonare come rimprovero alla fattiva massaia: "Marta, Marta, tu t'inquieti e ti affanni per molte cose; una sola è necessaria: Maria invece ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta". Ma rimprovero non è, commenta S. Agostino: "Marta, tu non hai scelto il male; Maria ha però scelto meglio di te". Ciononostante Maria, considerata il modello evangelico delle anime contemplative già da S. Basilio e S. Gregorio Magno, non sembra che figuri nel calendario liturgico: la santità di questa dolce figura di donna è fuori discussione, poiché le è stata confermata dalle stesse parole di Cristo; ma è Marta soltanto, e non Maria né Lazzaro, a comparire nel calendario universale, quasi a ripagarla delle sollecite attenzioni verso la persona del Salvatore e per proporla alle donne cristiane come modello di operosità.L'avvilita e incompresa professione di massaia è riscattata da questa santa fattiva di nome Marta, che vuol dire semplicemente "signora". Marta ricompare nel Vangelo nel drammatico episodio della risurrezione di Lazzaro, dove implicitamente domanda il miracolo con una semplice e stupenda professione di fede nella onnipotenza del Salvatore, nella risurrezione dei morti e nella divinità di Cristo, e durante un banchetto al quale partecipa lo stesso Lazzaro, da poco risuscitato, e anche questa volta ci si presenta in veste di donna tuttofare. La lezione impartitale dal Maestro non riguardava, evidentemente, la sua encomiabile laboriosità, ma l'eccesso di affanno per le cose materiali a scapito della vita interiore. Sugli anni successivi della santa non abbiamo alcuna notizia storicamente accertabile, pur abbondando i racconti leggendari. I primi a dedicare una celebrazione liturgica a S. Marta furono i francescani, nel 1262, il 29 luglio, cioè otto giorni dopo la festa di S. Maria Maddalena, impropriamente identificata con sua sorella Maria.

lunedì 28 luglio 2008

BENEDETTO XVI - ANGELUS


Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo
Domenica, 27 luglio 2008
Cari fratelli e sorelle!
Sono rientrato lunedì scorso da Sydney, in Australia, sede della XXIII Giornata Mondiale della Gioventù. Ho ancora negli occhi e nel cuore questa straordinaria esperienza, nella quale mi è stato dato di incontrare il volto giovane della Chiesa: era come un mosaico multicolore, formato da ragazzi e ragazze provenienti da ogni parte della terra, tutti riuniti dall’unica fede in Gesù Cristo. "Young pilgrims of the world – giovani pellegrini del mondo", così li chiamava la gente con una bella espressione che coglie l’essenziale di queste Giornate internazionali iniziate da Giovanni Paolo II. Questi incontri infatti formano le tappe di un grande pellegrinaggio attraverso il pianeta, per manifestare come la fede in Cristo ci renda tutti figli dell’unico Padre che è nei cieli e costruttori della civiltà dell’amore.
Caratteristica propria dell’incontro di Sydney è stata la presa di coscienza della centralità dello Spirito Santo, protagonista della vita della Chiesa e del cristiano. Il lungo cammino di preparazione nelle Chiese particolari aveva seguito come tema la promessa fatta da Cristo risorto agli Apostoli: "Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni" (At 1,8). Nei giorni 16, 17 e 18 luglio, nelle chiese di Sydney, i numerosi Vescovi presenti hanno esercitato il loro ministero, proponendo le catechesi nelle varie lingue: queste catechesi sono momenti di riflessione e di raccoglimento indispensabili perché l’evento non resti solo manifestazione esterna, ma lasci una traccia profonda nelle coscienze. La Veglia serale nel cuore della città, sotto la Croce del Sud, è stata una corale invocazione dello Spirito Santo; e infine, durante la grande Celebrazione eucaristica di domenica scorsa, ho amministrato il Sacramento della Confermazione a 24 giovani di vari continenti, di cui 14 australiani, invitando tutti i presenti a rinnovare le promesse battesimali. Così questa Giornata Mondiale si è trasformata in una nuova Pentecoste, dalla quale è ripartita la missione dei giovani, chiamati ad essere apostoli dei loro coetanei, come tanti santi e beati, ed in particolare il Beato Piergiorgio Frassati, le cui reliquie, collocate nella Cattedrale di Sydney, sono state venerate da un ininterrotto pellegrinaggio di giovani. Ogni ragazzo e ragazza è stato invitato a seguire il loro esempio, a condividere l’esperienza personale di Gesù, che cambia la vita dei suoi "amici" con la forza dello Spirito Santo, lo Spirito dell’amore di Dio.
Voglio oggi ringraziare nuovamente i Vescovi dell’Australia, in particolare l’Arcivescovo di Sydney, Cardinal Pell, per il grande lavoro di preparazione e per la cordiale accoglienza che hanno riservato a me e a tutti gli altri pellegrini. Ringrazio le autorità civili australiane per la loro preziosa collaborazione. Un grazie speciale va a tutti coloro che, in ogni parte del mondo, hanno pregato per questo evento, assicurandone la buona riuscita. La Vergine Maria ricompensi ciascuno con le grazie più belle. A Maria affido anche il periodo di riposo che trascorrerò da domani a Bressanone, tra le montagne dell’Alto Adige. Rimaniamo uniti nella preghiera!

domenica 27 luglio 2008

Vangelo della XVII Domenica del Tempo Ordinario - Anno A

Vangelo Mt 13, 44-52
Vende tutti i suoi averi e compra quel campo.

Dal vangelo secondo Matteo
[ In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.] Il regno dei cieli è simile anche a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva e poi, sedutisi, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete capito tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

sabato 26 luglio 2008

11 - L'amore dei nemici - "La sapienza del cuore" (di Padre Fabrizio CARLI)

Gesù - come abbiamo visto - è stato molto esplicito nel dirci di non escludere nessuno dal nostro amore; egli ci comanda infatti di amare persino i nostri nemici: “Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano” (Lc 6,27-28). Certo, l’istinto non ci porta ad amare i nemici, a fare del bene a chi ci odia. Eppure il Signore ce lo comanda! E può infatti comandarlo, dopo aver posto nell’uomo un cuore nuovo, un cuore cioè in cui si è effuso lo stesso definito amore di Dio per amare in noi senza limiti.Ma non potremo amare i nemici se non saremo veramente capaci di muovere il cuore all’amore, perché anche con il cuore nuovo rimane in noi l’istinto che si ribella o per lo meno non tende ad amare chi ci fa del male. È pure vero che l’amore di Dio lavora in noi con forza e soavità per aiutarci a superare le resistenze dell’istinto, ma vuole la nostra cooperazione, la nostra volontà di bene: pure amando in noi, il Signore vuole che anche noi amiamo in lui e con lui. Quello che ci viene comandato nei confronti dei nostri nemici è prima di tutto quell’apprezzamento, quella valutazione, quel modo di vederli e di considerarli, per cui poco alla volta nasce in noi la convinzione che li dobbiamo amare. E questo - ripetiamo – dipende dall’intelligenza che deve vedere e comprendere tutte le ragioni che ci persuadono a questo amore.Certo, come si è detto, le ragioni o motivi rimangono nell’ordine razionale: li possiamo cioè comprendere, ma contro di essi si oppone la resistenza dell’istinto radicato nella nostra parte sensitiva e reattiva. Deve allora intervenire la volontà illuminata dai motivi e dalle ragioni che ci persuadono di dover amare anche in questo caso. Ma la volontà potrà muoversi nella misura in cui noi saremo persuasi di dover amare. Possiamo citare a conferma queste parole di Giovanni Paolo II: “Il prossimo è ogni uomo senza eccezione; perciò Cristo parla anche dell’amore dei nemici(…)”.A questo punto nasce la domanda: come è possibile che l’uomo ami quando si sente odiato, e per di più quando egli stesso sente di avere in sé, odio o almeno malanimo, diciamo antipatia, nei confronti di alcune persone? “effettivamente, dal punto di vista dei nostri sentimenti vi è qui una difficoltà, anzi una “contraddizione”: quando “sento” avversione od odio, come posso contemporaneamente “sentire” amore? Tuttavia l’amore non si riduce soltanto a ciò che sentiamo. Esso ha nell’uomo anche radici più profonde, che si trovano nel suo “io” spirituale, nel suo intelletto e nella sua volontà. Volendo assolvere il comandamento dell’amore (in particolare quando si tratta dell’amore dei nemici), noi dobbiamo risalire proprio a quelle radici profonde” (Oss. Rom. 25 febbraio 1981).È sempre quel lavorio interiore che abbiamo già indicato; quel lavorio che ci porta a vedere in altra luce anche i nostri nemici e ce li rende amabili. Se poi tenessimo presente che anche noi manchiamo tanto verso il prossimo e a nostra volta abbiamo bisogno di indulgenza e di perdono; se giungessimo davvero a vedere i nostri nemici come nostri fratelli anche se ci hanno fatto del male; se addirittura li considerassimo come fratelli ancora più bisognosi di compatimento e di amore proprio perché moralmente mancanti, e se soprattutto vedessimo in loro il Signore che ci viene incontro per darci l’occasione di quel grande atto di amore che è il perdono; tutto questo ci aiuterebbe a vedere i nostri nemici in una luce per cui possibile - con la grazia di Dio – giungere a voler loro bene.Il Signore infatti non vuole soltanto che si “perdoni” ai nostri nemici:vuole che si amino. E amare - abbiamo visto – significa voler bene. Di fronte a questo comandamento così esigente, dobbiamo rivedere anche quell’eventuale nostro atteggiamento con cui pensiamo di essere a posto quando giungiamo a perdonare ma non a dimenticare. È già molto, certamente, il perdonare; ma il Signore vuole da noi ancora di più: vuole che amiamo. E l’amore non tiene conto del male che gli altri ci fanno, non ricorda: l’amore ama e basta. È il caso di riflettere, a questo punto, in modo particolare, come siamo tenuti ad amare anche i nostri fratelli violenti.Tutti siamo consapevoli che la nostra società è sconvolta dalla violenza nelle sue mille forme, apparenti e non apparenti. Eppure è raro sentire una voce che inviti al compatimento, al perdono, all’amore.La ragione è che noi siamo diventati violenti, nei giudizi, negli apprezzamenti e nelle valutazioni. Certo, chi è convinto che alla violenza bisogna rispondere con la violenza, o che ai colpevoli si deve irrogare la pena di morte, si comporta, anche senza esserne cosciente, da violento: in conseguenza di queste sue convinzioni, si ingenera in lui tutto un atteggiamento di aggressività che, già presente nel modo di giudicare e di pensare, si manifesta poi fatalmente anche nel parlare e nell’agire.È il cambiamento di mentalità che si richiede, prima di tutto, per far cessare la violenza almeno in noi; dobbiamo pensare in termini di compatimento, di perdono, di amore; dobbiamo, qui più che mai, saper vedere tutti i motivi che ci possono indurre ad amare anche i nostri fratelli violenti. È difficile, certamente, anche perché, si può confondere la giustizia con la vendetta. Volendo giustizia, sconfiniamo senza accorgercene nella vendetta.Ma come si può voler bene ai violenti? Nello stesso modi in cui si può voler bene ai nostri nemici: e cioè giungendo a vedere anche i violenti in una luce che ce li rende amabili, rivestendoli di tutti quei motivi che ci sono per amare anch’essi, anzi, per amare essi soprattutto, proprio perché, sono figli profughi della nostra epoca consumistica e permissiva.

venerdì 25 luglio 2008

San Luigi Orione


Nacque a Pontecurone nella diocesi di Tortona, il 23 giugno 1872. A 13 anni entrò fra i Frati Minori di Voghera. Nel 1886 entrò nell’oratorio di Torino diretto da san Giovanni Bosco. Nel 1889 entrò nel seminario di Tortona. Proseguì gli studi teologici, alloggiando in una stanzetta sopra il duomo. Qui ebbe l’opportunità di avvicinare i ragazzi a cui impartiva lezioni di catechismo, ma la sua angusta stanzetta non bastava, per cui il vescovo gli concesse l’uso del giardino del vescovado. Il 3 luglio 1892, il giovane chierico Luigi Orione, inaugurò il primo oratorio intitolato a san Luigi. Nel 1893 aprì il collegio di san Bernardino. Nel 1895, venne ordinato sacerdote. Molteplici furono le attività cui si dedicò. Fondò la Congregazione dei Figli della Divina Provvidenza e le Piccole Missionarie della Carità; gli Eremiti della Divina Provvidenza e le Suore Sacramentine. Mandò i suoi sacerdoti e suore nell’America Latina e in Palestina sin dal 1914. Morì a Sanremo nel 1940. (Avvenire)

Etimologia: Luigi = derivato da Clodoveo


Martirologio Romano: A Sanremo in Liguria, san Luigi Orione, sacerdote, fondatore della Piccola Opera della Divina Provvidenza per il bene dei giovani e di tutti gli emarginati.




Un santo dei nostri tempi, di lui esiste una vastissima bibliografia e periodicamente escono pubblicati stampati, riviste, quaderni di spiritualità, libri che lo riguardano, lo analizzano in tutti i suoi aspetti, parlano della sua opera, davvero grande. Il beato Luigi Giovanni Orione, nacque a Pontecurone nella diocesi di Tortona, il 23 giugno 1872 da onesti e semplici genitori, in particolare la madre fu una saggia educatrice e gli fu di valido aiuto nelle sue future attività con i ragazzi. Lavorò nei campi nella sua fanciullezza, frequentando un po’ di scuola e dedito alle pratiche religiose. A 13 anni entrò fra i Frati Minori di Voghera, purtroppo a causa di una grave polmonite, dovette ritornarsene in famiglia. Ristabilitasi, aiutò il padre nella selciatura delle strade, esperienza che gli risulterà molto utile per comprendere le sofferenze e la mentalità degli operai. Nel 1886 entrò nell’oratorio di Torino diretto da s. Giovanni Bosco, ove rimarrà per tre anni, l’insegnamento ricevuto e l’esperienza vissuta con il santo innovatore, non si cancellò più dal suo animo, costituendo una direttiva essenziale per le sue future attività in campo giovanile. Inaspettatamente lasciò i salesiani e nel 1889 entrò nel seminario di Tortona per studiare filosofia per due anni, al termine del corso, proseguì gli studi teologici, alloggiando in una stanzetta sopra il duomo, nel quale prestava servizio per le Messe; riceveva anche un piccolo compenso per le sue necessità. Nel duomo ebbe l’opportunità di avvicinare i ragazzi a cui impartiva lezioni di catechismo, ma la sua angusta stanzetta non bastava, per cui il vescovo, conscio dell’importanza dell’iniziativa, gli concesse l’uso del giardino del vescovado. Il 3 luglio 1892, il giovane chierico Luigi Orione, inaugurò il primo oratorio intitolato a s. Luigi; l’anno successivo riuscì ad aprire un collegio detto di s. Bernardino, subito frequentato da un centinaio di ragazzi. Il 13 aprile 1895, venne ordinato sacerdote, celebrando la prima Messa fra i suoi ragazzi, che nel frattempo si erano trasferiti nell’ex convento di S. Chiara. Attorno a lui si riunirono altri sacerdoti e chierici, formando il primo nucleo della futura congregazione; si impegnò con tutte le sue forze in molteplici attività: visite ai poveri ed ammalati, lotta contro la Massoneria, diffusione della buona stampa, frequenti predicazioni, cura dei ragazzi. Si precipitò a soccorrere le popolazioni colpite dal terremoto del 1908 a Messina e Reggio Calabria, inviando nelle sue Case molti orfani, divenne il centro degli aiuti sia civili che pontifici. Papa Pio X gli diede l’incarico, che durò tre anni, di vicario generale della diocesi di Messina. Stessa operosità dimostrò negli aiuti ai terremotati della Marsica nel 1915, accogliendo altri orfani, a cui diede come a tutti, il vivere, l’istruzione, il lavoro. Se s. Giovanni Bosco fu l’esempio per l’educazione dei ragazzi, s. Giuseppe Benedetto Cottolengo fu l’esempio per le opere di carità; girò varie volte l’Italia per raccogliere vocazioni e aiuti materiali per la sue molteplici Opere. Per curare tante attività, fondò la Congregazione dei Figli della Divina Provvidenza e le Piccole Missionarie della Carità; dal lato spirituale e contemplativo, fondò gli Eremiti della Divina Provvidenza e le Suore Sacramentine, a queste due Istituzioni ammise anche i non vedenti. Ancora lo spirito missionario lo spinse a mandare i suoi figli e suore nell’America Latina e in Palestina sin dal 1914; ben due volte per sostenere le sue opere, si recò egli stesso nel 1921 e nel 1934 a Buenos Aires, dove restò per tre anni organizzando scuole, colonie agricole, parrocchie, orfanotrofi, case di carità dette “Piccolo Cottolengo”. Sempre in movimento conduceva una vita penitente e poverissima, sebbene cagionevole di salute, organizzò missioni popolari, presepi viventi, processioni e pellegrinaggi, con l’intento che la fede deve permeare tutte le fasi della vita. Gli ultimi tre anni della sua vita li trascorse sempre a Tortona, facendo visita settimanale al ‘Piccolo Cottolengo’ di Milano ed a quello di Genova; cedendo alle pressioni dei medici e dei confratelli, si concesse qualche giorno di riposo a Sanremo nella villa di S. Clotilde, dove morì dopo pochi giorni, il 12 marzo 1940. I funerali furono solennissimi e ricevé l’omaggio di tutte le città del Nord Italia da dove passò il corteo funebre; venne tumulato nella cripta del Santuario della Madonna della Guardia di Tortona, da lui fatto edificare. Venticinque anni dopo nel 1965, fu fatta la ricognizione della salma che fu trovata completamente intatta e di nuovo tumulata. In queste brevi note biografiche, non si riesce a descrivere l’importanza che l’Opera sociale e spirituale di don Orione, come da sempre è chiamato così, ha avuto nel contesto umano, prima con le conseguenze di disastri naturali e poi con i disastri provocati dalla follia umana delle due Guerre Mondiali. Personaggi di ogni ceto sociale e culturale lo conobbero e contattarono, dai papi s. Pio X e Benedetto XV al maestro Lorenzo Perosi, dalle autorità politiche nazionali e locali, ai santi del suo tempo. Il fondatore della ‘Piccola Opera della Divina Provvidenza’ è stato beatificato il 26 ottobre 1980 da papa Giovanni Paolo II, in un tripudio di tanti suoi figli ed assistiti provenienti da tanta Nazioni.E' stato proclamato santo da Giovanni Paolo II il 16 maggio 2004, data di culto in cui lo ricorda ogni anno la Congregazione da lui fondata.

giovedì 24 luglio 2008

Partire dai valori comuni per riconoscere la libertà religiosa


Intervista al cardinale Tauran dopo la conclusione del Congresso di Madrid


L'insufficiente comprensione della libertà religiosa è l'unico punto meno positivo che, secondo il cardinale Jean Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, è emerso fra quelli affrontati nel corso del Congresso sul dialogo interreligioso promosso dal re saudita Abdullah Bin Abdelaziz Al Saùd. Secondo il porporato sono molti altri invece i segnali positivi arrivati dall'incontro di Madrid. L'islam presentato come religione di pace, la volontà di riunire rappresentanti delle tre religioni monoteistiche dell'ebraismo, del cristianesimo e dell'islamismo, sono certamente - a giudizio del cardinale Tauran, che ha concluso i lavori - i punti positivi dell'importante appuntamento. Organizzato dalla lega del Mondo islamico, il Congresso sul dialogo interreligioso si è concluso con la pubblicazione di un documento degli stessi promotori, intitolato "Dichiarazione di Madrid", che è apparso espressione del desiderio di proseguire lungo il cammino del dialogo. Al termine del Congresso il cardinale Tauran ha rilasciato a "L'Osservatore Romano" la breve intervista che pubblichiamo.


Quale passo avanti ritiene abbia rappresentato nel dialogo interreligioso il Congresso di Madrid?


Prima di tutto il fatto che si sia trattato di un'iniziativa del re dell'Arabia Saudita - che non è solamente un capo di Stato, ma anche il guardiano delle due Moschee più significative dell'islam - imprime a questo evento una colorazione particolare. È anche molto significativo che il re saudita giudichi non esservi altra alternativa che il dialogo. Si vede dunque che c'è un desiderio di dare un'altra immagine dell'islam e di convincere la base dei fedeli islamici della bontà del dialogo con i cristiani e gli ebrei. Infine il fatto che per la prima volta eravamo presenti tutti e tre insieme.


Può sintetizzare, dalla prospettiva cattolica, quale immagine dell'islam secondo lei si è sviluppata in questo Congresso?


Vedo importante che si è voluto soprattutto sottolineare ciò che unisce i credenti delle tre religioni monoteistiche: la fede in un Dio unico, la convinzione che siamo chiamati a rispettare e gestire il creato, il valore della famiglia e la necessità di insegnare e trasmettere alle nuove generazioni dei criteri morali, etici. Sono valori che condividiamo e che certamente avranno delle ripercussioni molto positive sul terreno.


In che modo questo atteggiamento di apertura dell'islam può introdurre cambiamenti nello svolgimento della situazione internazionale?


Prima di tutto si vede che l'islam è una religione di pace, certamente un contrappeso all'islam fondamentalista. Quindi è molto importante dimostrare che l'islam è una religione di pace e non una filosofia di terrorismo, che si ha quando ci si serve della religione per scopi peccaminosi. Tutti, anche i musulmani, riconoscono questo. Chi usa l'islam per motivare il terrorismo opera una perversione della religione. Ripeto, tranne una piccola minoranza, tutti lo riconoscono. Nessuno può benedire questo tipo d'azione pervertitrice. E certo, si deve ricordare sempre che il linguaggio delle religioni è la preghiera, la carità, la fraternità.


Lei si aspetta altri cambiamenti, per esempio nell'ambito della libertà religiosa?


Una cosa molto significativa è che nel comunicato finale non c'è un solo accenno alla libertà di religione. Nel mio intervento, invece, l'ho menzionata. Questo vuol dire che ci sono ancora molte difficoltà in alcuni settori a capire la differenza tra libertà di culto e libertà di religione.


Nel suo intervento alla fine del Congresso sul Dialogo interreligioso, Lei ha anche accennato a tre obbiettivi molto concreti, da raggiungere urgentemente: "Promuovere la conoscenza reciproca; incoraggiare lo studio delle religioni in maniera obiettiva; formare le persone al dialogo interreligioso". Come si possono conseguire?


Imparare a conoscersi meglio, a rispettarsi e a collaborare assieme vuol dire che lo scopo del dialogo è cercare sempre di capire meglio il contenuto della fede dell'altro; non si tratta solamente di amicizia, ma anche di imparare a leggere i testi sacri dell'altro, a leggere i libri di teologia che spiegano la fede dell'altro; dunque c'è questo desiderio di imparare in profondità. Poi, incoraggiare lo studio delle religioni in maniera obiettiva vuol dire cercare di presentare in maniera scientifica il fatto religioso, che si manifesta attraverso una pluralità di religioni; perché c'è un fatto religioso che è innegabil e il credente vive la sua fede sempre in comunità. Queste hanno i loro riti, le loro lingue, le loro usanze, ed è molto importante imparare ad apprezzarlo. Riguardo a formare le persone al dialogo interreligioso, nei seminari, nei noviziati delle suore cattoliche, nelle università cattoliche, abbiamo bisogno di insegnanti di religione che devono essere stati formati a questo dialogo interreligioso, che non si improvvisa. È molto importante la cultura. La cultura è un modo molto significativo per far passare queste idee.


A suo avviso, negli ultimi anni si è progredito dalla tolleranza all'incontro, e dall'incontro al dialogo. Anche rispetto alle religioni diverse dall'islam?


Dopo il Concilio Vaticano ii, con tutte le religioni. Quando cioè si è capito che Dio è all'opera in tutti gli uomini, dunque c'è sempre qualcosa di positivo da scoprire nell'altro. Non si tratta soltanto di andare verso questo altro, ma di fermarsi da lui per capire meglio e fare un pezzo di cammino insieme.


Quale atteggiamento non bisogna mai usare nel dialogo interreligioso?


Mai dare l'impressione o pensare che nel fondo tutte le religioni si rassomigliano o che siano più o meno la stessa cosa. No. Ogni religione ha la sua specificità. Ciò che noi diciamo è che tutti i credenti, tutti i ricercatori di Dio hanno la stessa dignità e per questo devono essere rispettati. Non perché la loro religione è vera o falsa, ma perché sono persone umane.


Quale parola d'ordine si deve avere sempre nella mente quando si sta conducendo un dialogo interreligioso?


"Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te": la regola d'oro.


(Fonte: L'Osservatore Romano - 23 Luglio 2008 - intervista di Marta Lago)

mercoledì 23 luglio 2008

BENEDETTO XVI - ANGELUS (Ippodromo di Randwick, Domenica, 20 luglio 2008)

Cari giovani amici,

ci apprestiamo ora a recitare insieme la bella preghiera dell’Angelus. In essa rifletteremo su Maria, giovane donna in colloquio con l’angelo che la invita a nome di Dio ad una particolare donazione di se stessa, della propria vita, del proprio futuro di donna e di madre. Possiamo immaginare come dovette sentirsi in quel momento: piena di trepidazione, completamente sopraffatta dalla prospettiva che le era posta dinanzi.
L’angelo comprese la sua ansia e immediatamente cercò di rassicurarla: “Non temere, Maria... Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo” (Lc 1, 30, 35). Fu lo Spirito a darle la forza e il coraggio di rispondere alla chiamata del Signore. Fu lo Spirito ad aiutarla a comprendere il grande mistero che stava per compiersi per mezzo di lei. Fu lo Spirito che la avvolse con il suo amore e la rese capace di concepire il Figlio di Dio nel suo grembo.
Questa scena costituisce forse il momento cardine nella storia del rapporto di Dio con il suo popolo. Nell’Antico Testamento, Dio si era rivelato in modo parziale, in modo graduale, come tutti noi facciamo nei nostri rapporti personali. Ci volle tempo perché il popolo eletto approfondisse il suo rapporto con Dio. L’Alleanza con Israele fu come un periodo di corteggiamento, un lungo fidanzamento. Venne quindi il momento definitivo, il momento del matrimonio, la realizzazione di una nuova ed eterna alleanza. In quel momento Maria, davanti al Signore, rappresentava tutta l’umanità. Nel messaggio dell’angelo, era Dio ad avanzare una proposta di matrimonio con l’umanità. E a nome nostro, Maria disse di sì.
Nelle fiabe, i racconti terminano qui, e tutti “da quel momento vivono contenti e felici”. Nella vita reale non è così facile. Molte furono le difficoltà con cui Maria dovette cimentarsi nell’affrontare le conseguenze di quel “sì” detto al Signore. Simeone profetizzò che una spada le avrebbe trafitto il cuore. Quando Gesù ebbe dodici anni, ella sperimentò i peggiori incubi che ogni genitore può provare, quando, per tre giorni, suo figlio si era smarrito. E dopo la sua attività pubblica, ella soffrì l’agonia di essere presente alla sua crocifissione e morte. Attraverso le varie prove ella rimase sempre fedele alla sua promessa, sostenuta dallo Spirito di fortezza. E ne fu ricompensata con la gloria.
Cari giovani, anche noi dobbiamo rimanere fedeli al “sì” con cui abbiamo accolto l’offerta di amicizia da parte del Signore. Sappiamo che egli non ci abbandonerà mai. Sappiamo che Egli ci sosterrà sempre con i doni dello Spirito. Maria ha accolto la “proposta” del Signore a nome nostro. Ed allora, volgiamoci a lei e chiediamole di guidarci nelle difficoltà per rimanere fedeli a quella relazione vitale che Dio ha stabilito con ciascuno di noi. Maria è il nostro esempio e la nostra ispirazione; Ella intercede per noi presso il suo Figlio, e con amore materno ci protegge dai pericoli.
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Dopo l'Angelus
Cari amici,
è ora giunto il momento di dirvi addio, o piuttosto, arrivederci! Vi ringrazio tutti per aver partecipato alla Giornata Mondiale della Gioventù 2008, qui a Sydney, e spero di rivedervi fra tre anni. La Giornata Mondiale della Gioventù 2011 si svolgerà a Madrid, in Spagna. Fino a quel momento, preghiamo gli uni per gli altri, e rendiamo davanti al mondo la nostra gioiosa testimonianza a Cristo. Dio vi benedica tutti.

martedì 22 luglio 2008

ENTRARE NEL CUORE DI DIO - (di Padre Valter ARRIGONI)


“Tu hai cura di tutte le cose … giudichi con mitezza … sei indulgente … hai insegnato che il giusto deve amare gli uomini … hai reso i tuoi figli pieni di dolce speranza perchè tu concedi dopo i peccati la possibilità di pentirsi”. Nella prima lettura di domenica, tratta dal libro della Sapienza, di Dio si afferma questo. Il salmo aggiunge: “grande tu sei e compi meraviglie … Dio di pietà, compassionevole, lento all’ira e pieno di amore, Dio fedele … abbi misericordia”.
Questa è la vera immagine di Dio, questo il suo cuore, questa la sua essenza: una compassione piena di amore per tutte le sue creature, soprattutto per l’uomo creato a sua immagine e somiglianza.
Nell’affermare che Dio concede dopo i peccati la possibilità di pentirsi è resa evidente la compassione con la quale il Padre ci guarda nella nostra ricerca della felicità, della gioia, della pace. Ricerca che talvolta ci porta su strade sbagliate. Ci illude di aver trovato la meta, di essere arrivati. Di poterci fermare e di poter restare lì per il resto della vita. Poi, drammaticamente, il paradiso svela il suo volto di inferno, dietro la maschera seducente si rivela il ghigno mostruoso della morte. Ciò che ci sembrava la meta, la felicità per sempre non è altro che un imbroglio. Allora il cuore compassionevole (nell’Antico Testamento si chiamano “le viscere di misericordia”, “l’utero di Dio”) si volge su di noi non per condannarci, per punirci, per castigarci ma per rimetterci nel cammino della vita. Dio ci fa continuare la nostra ricerca nella quale faremo ancora degli errori,delle cadute, dei “peccati”. Agostino, vescovo di Ippona, diceva con una frase scultorea, e vera nella sua brevità, “il mio cuore è inquieto finché non trova in te il suo riposo”. Il peccato, prima che essere visto dal Padre come una offesa alla sua grandezza, è visto con compassione, con dolore, come la morte del figlio amato. Ricordiamo le parole del padre del figliol prodigo, nel quale Gesù ci rivela il volto del Padre suo, quando il giovane torna a casa:”questo mio figlio che era morto, è tornato in vita”. Non lo rimprovera di lesa maestà verso l’autorità paterna. Non gli chiede neppure di scontare una pena per il male che ha fatto. Perché peccando il male lo si fa a stessi, ci si uccide, si rovina la propria vita.
“Tu, o Signore che sei nell’intimo di te stesso compassione, ridammi vita. Ridammi il tempo della ricerca. Donami un cuore capace di essere inquieto, insoddisfatto finchè non trovi in te la sua pace”.
Perché il rischio è proprio questo: che ci accontentiamo di qualcosa che abbiamo e ci sentiamo in pace, soddisfatti. Addormentiamo il desiderio in noi. Il nostro spirito di ricerca. La nostra voglia di verità. Quello che Dante Alighieri, nella sua Divina Commedia, faceva dire ad Ulisse, scelto come esempio più alto dell’umanità alla continua ricerca dl senso della vita, delle cose, di tutto: “nati non fummo per viver come bruti, ma per seguire virtute e conoscenza”. attraverso la nostra vita, la nostra intelligenza, le esperienze, la riflessione arrivare a Dio, senso, ragione di tutto.
Il rischio però è quello di fermarsi una volta soddisfatta una parte di noi stessi. La pancia, la tasca, il sesso, la voglia di primeggiare, il desiderio di vendetta.
Il rischio che per quasi tutta l’umanità occidentale è la realtà è di pensare che le cose saziano il cuore, fra le cose ci sono anche le persone usate per il proprio io affamato e mai sazio.
Lo chiamiamo il consumismo ma forse è più vero chiamarlo il suicidio collettivo. Basta guardare le nostre spiagge, le piazze, le vacanze. Basta guardare con occhio intelligente come la stragrande maggioranza delle persone ha progettato e vive il tempo del riposo. Ogni anno la stessa storia. Ogni anno le stesse lamentele. Ogni anno gli stessi errori nei quali ci ripromettiamo di non cadere mai più ed ogni anno rifacciamo le stesse scelte.
Per fortuna che c’è Dio che “concede, dopo il peccato, la possibilità di pentirsi”, e la concede all’infinito perché noi sbagliamo all’infinito.
Del Vangelo voglio sottolineare solo un aspetto che probabilmente viene poco notato: Dio ha creato il mondo bello e sufficiente per tutti gli uomini. “Il Regno dei cieli (Dio) si può paragonare ad un uomo che ha seminato il buon seme nel suo campo”. Il buon seme significa cha da Dio viene tutto e solo bene, il bene. Il campo è il mondo. Il buon seme sono tutte le cose che servono all’uomo. Ce n’è abbastanza per tutti. Venne però il suo nemico e sparse la zizzania, il male. Siamo abituati a pensare sempre al male come sesso, denaro, gola, potere, vendetta, ma c’è la radice del male ed è il pensare solo a se stessi. Questo mondo, creato per far star bene tutti, non basta neppure per far star bene me! Denaro, sesso, potere, vendetta sono le forme che nella vita di ognuno prende il male radicale, l’io famelico, insaziabile, divorante. Sempre Dante lo rappresenta come l’animale talmente affamato di cose che ad un certo punto diventa malvagio anche verso se stesso. Siamo noi! E’ il buco nell’ozono perché ormai non possiamo più fare a meno di ciò che lo provoca. Sono i rifiuti tossici, che uccidono, fanno venire il cancro, ma portano soldi, tanti soldi in poche tasche. E’ il grano, il mais che non servono più a dar da mangiare ai poveri ma soldi, come fonte di energia, ai proprietari terrieri.
Fermarsi a chiedersi cos’è la zizzania nella mia vita.
La tentazione è infatti pensare che la zizzania siano i cattivi, gli altri, alcuni malvagi. La zizzania ed il grano buono sono in noi, sono in me. L’esame di coscienza è su di me. Cosa è buono e cosa è cattivo in quel guazzabuglio che è il mio cuore? Cosa cresce nel campo che è la mia vita?
In questo tempo di grazia che mi è stato dato, in questi mesi da eremita, la sera soprattutto mi capita di fermarmi e piangere pensando al dolore dell’umanità, al dolore che l’uomo si infligge. Al viaggio della vita di moltissimi che non sanno né dove andare né che strada seguire.
Confesso che non piango sui miei peccati, sul male che ho fatto verso di Dio ed a me stesso ma sul bene che non ho fatto agli altri. Pensando al dolore, all’ingiustizia, alla miseria morale e materiale sono convinto di essere responsabile. Davanti a quello che J.P.Sartre chiamava “il disperato oggi della bestia (l’uomo senza speranza)” io conosco la speranza. Io conosco la meta e la strada. Io conosco, so, faccio esperienza del peccato, della mia fragilità e delle sue braccia che si tendono a sollevarmi ogni volta con tenerezza e compassione. Io lo so. Sono colpevole perché non l’ho detto, fatto vedere, fatto incontrare. Troppi attorno a me sono caduti morti nella loro vita e non hanno visto in me lo specchio del divino. Adesso basta! Non ho altro da dare. Non ho soldi, non ho cose, non ho potere né conoscenze, non ho altro che la vita, la mia vita, il mio cuore, il mio tempo. Tutto però riempito di Lui. Tornerò per darlo, solo per darlo a tutti. E se mi fermerò, stanco e deluso, vi prego, amici miei, richiamatemi, rialzatemi, risvegliatemi.
Ieri mi sono trovato fra le mani una poesia tratta da “Il libro d’ore” di Rayner Maria Rilke, ve la consegno come consegno me stesso. sono io:

“La mia vita la vivo in cerchi concentrici che si espandono
Che sulla cose si allargano.
Non saprò, forse, compiere l’estremo,
ma tenterò comunque.
Ruoto attorno a Dio, antichissima torre,
e da mille e mill’anni giro;
e non so ancora: un falco, un uragano, un canto immenso
sono”


Valter Maria Arrigoni

lunedì 21 luglio 2008

CELEBRAZIONE EUCARISTICA PER LA XXIII GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Ippodromo di RandwickDomenica, 20 luglio 2008
Cari amici,
“avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi” (At 1,8). Abbiamo visto realizzata questa promessa! Nel giorno di Pentecoste, come abbiamo ascoltato nella prima lettura, il Signore risorto, seduto alla destra del Padre, ha inviato lo Spirito sui discepoli riuniti nel Cenacolo. Per la forza di questo Spirito, Pietro e gli Apostoli sono andati a predicare il Vangelo fino ai confini della terra. In ogni età ed in ogni lingua la Chiesa continua a proclamare in tutto il mondo le meraviglie di Dio e invita tutte le nazioni e i popoli alla fede, alla speranza e alla nuova vita in Cristo.
In questi giorni anch’io sono venuto, come Successore di san Pietro, in questa stupenda terra d’Australia. Sono venuto a confermare voi, miei giovani fratelli e sorelle, nella vostra fede e ad aprire i vostri cuori al potere dello Spirito di Cristo e alla ricchezza dei suoi doni. Prego perché questa grande assemblea, che unisce giovani “di ogni nazione che è sotto il cielo” (At 2,5), diventi un nuovo Cenacolo. Possa il fuoco dell’amore di Dio scendere a riempire i vostri cuori, per unirvi sempre di più al Signore e alla sua Chiesa e inviarvi, come nuova generazione di apostoli, a portare il mondo a Cristo!
“Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi”. Queste parole del Signore Risorto hanno uno speciale significato per quei giovani che saranno confermati, segnati con il dono dello Spirito Santo, durante questa Santa Messa. Ma queste parole sono anche indirizzate ad ognuno di noi, a tutti coloro cioè che hanno ricevuto il dono dello Spirito di riconciliazione e della nuova vita nel Battesimo, che lo hanno accolto nei loro cuori come loro aiuto e guida nella Confermazione e che quotidianamente crescono nei suoi doni di grazia mediante la Santa Eucaristia. In ogni Messa, infatti, lo Spirito Santo discende nuovamente, invocato nella solenne preghiera della Chiesa, non solo per trasformare i nostri doni del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue del Signore, ma anche per trasformare le nostre vite, per fare di noi, con la sua forza, “un solo corpo ed un solo spirito in Cristo”.
Ma che cosa è questo “potere” dello Spirito Santo? E’ il potere della vita di Dio! E’ il potere dello stesso Spirito che si librò sulle acque all’alba della creazione e che, nella pienezza dei tempi, rialzò Gesù dalla morte. E’ il potere che conduce noi e il nostro mondo verso l’avvento del Regno di Dio. Nel Vangelo di oggi, Gesù annuncia che è iniziata una nuova era, nella quale lo Spirito Santo sarà effuso sull’umanità intera (cfr Lc 4,21). Egli stesso, concepito per opera dello Spirito Santo e nato dalla Vergine Maria, è venuto tra noi per portarci questo Spirito. Come sorgente della nostra nuova vita in Cristo, lo Spirito Santo è anche, in un modo molto vero, l’anima della Chiesa, l’amore che ci lega al Signore e tra di noi e la luce che apre i nostri occhi per vedere le meraviglie della grazia di Dio intorno a noi.
Qui in Australia, questa “grande terra meridionale dello Spirito Santo”, noi tutti abbiamo avuto un’indimenticabile esperienza della presenza e della potenza dello Spirito nella bellezza della natura. I nostri occhi sono stati aperti per vedere il mondo attorno a noi come veramente è: “ricolmo”, come dice il poeta “della grandezza di Dio”, ripieno della gloria del suo amore creativo. Anche qui, in questa grande assemblea di giovani cristiani provenienti da tutto il mondo, abbiamo avuto una vivida esperienza della presenza e della forza dello Spirito nella vita della Chiesa. Abbiamo visto la Chiesa per quello che veramente è: Corpo di Cristo, vivente comunità d’amore, comprendente gente di ogni razza, nazione e lingua, di ogni tempo e luogo, nell’unità nata dalla nostra fede nel Signore risorto.
La forza dello Spirito non cessa mai di riempire di vita la Chiesa! Attraverso la grazia dei Sacramenti della Chiesa, questa forza fluisce anche nel nostro intimo, come un fiume sotterraneo che nutre lo spirito e ci attira sempre più vicino alla fonte della nostra vera vita, che è Cristo. Sant’Ignazio di Antiochia, che morì martire a Roma all’inizio del secondo secolo, ci ha lasciato una splendida descrizione della forza dello Spirito che dimora dentro di noi. Egli ha parlato dello Spirito come di una fontana di acqua viva che zampilla nel suo cuore e sussurra: “Vieni, vieni al Padre!” (cfr Ai Romani, 6,1-9).
Tuttavia questa forza, la grazia dello Spirito, non è qualcosa che possiamo meritare o conquistare; possiamo solamente riceverla come puro dono. L’amore di Dio può effondere la sua forza solo quando gli permettiamo di cambiarci dal di dentro. Noi dobbiamo permettergli di penetrare nella dura crosta della nostra indifferenza, della nostra stanchezza spirituale, del nostro cieco conformismo allo spirito di questo nostro tempo. Solo allora possiamo permettergli di accendere la nostra immaginazione e plasmare i nostri desideri più profondi. Ecco perché la preghiera è così importante: la preghiera quotidiana, quella privata nella quiete dei nostri cuori e davanti al Santissimo Sacramento e la preghiera liturgica nel cuore della Chiesa. Essa è pura ricettività della grazia di Dio, amore in azione, comunione con lo Spirito che dimora in noi e ci conduce, attraverso Gesù, nella Chiesa, al nostro Padre celeste. Nella potenza del suo Spirito, Gesù è sempre presente nei nostri cuori, aspettando quietamente che ci disponiamo nel silenzio accanto a Lui per sentire la sua voce, restare nel suo amore e ricevere la “forza che proviene dall’alto”, una forza che ci abilita ad essere sale e luce per il nostro mondo.
Nella sua Ascensione, il Signore risorto disse ai suoi discepoli: “Sarete miei testimoni... fino ai confini del mondo” (At 1,8). Qui, in Australia, ringraziamo il Signore per il dono della fede, che è giunto fino a noi come un tesoro trasmesso di generazione in generazione nella comunione della Chiesa. Qui, in Oceania, ringraziamo in modo speciale tutti quegli eroici missionari, sacerdoti e religiosi impegnati, genitori e nonni cristiani, maestri e catechisti che hanno edificato la Chiesa in queste terre. Testimoni come la Beata Mary MacKillop, San Peter Chanel, il Beato Peter To Rot e molti altri! La forza dello Spirito, rivelata nelle loro vite, è ancora all’opera nelle iniziative di bene che hanno lasciato, nella società che hanno plasmato e che ora è consegnata a voi.
Cari giovani, permettetemi di farvi ora una domanda. Che cosa lascerete voi alla prossima generazione? State voi costruendo le vostre esistenze su fondamenta solide, state costruendo qualcosa che durerà? State vivendo le vostre vite in modo da fare spazio allo Spirito in mezzo ad un mondo che vuole dimenticare Dio, o addirittura rigettarlo in nome di un falso concetto di libertà? Come state usando i doni che vi sono stati dati, la “forza” che lo Spirito Santo è anche ora pronto a effondere su di voi? Che eredità lascerete ai giovani che verranno? Quale differenza voi farete?
La forza dello Spirito Santo non ci illumina soltanto né solo ci consola. Ci indirizza anche verso il futuro, verso l’avvento del Regno di Dio. Che magnifica visione di una umanità redenta e rinnovata noi scorgiamo nella nuova era promessa dal Vangelo odierno! San Luca ci dice che Gesù Cristo è il compimento di tutte le promesse di Dio, il Messia che possiede in pienezza lo Spirito Santo per comunicarlo all’intera umanità. L’effusione dello Spirito di Cristo sull’umanità è un pegno di speranza e di liberazione contro tutto quello che ci impoverisce. Tale effusione dona nuova vista al cieco, manda liberi gli oppressi, e crea unità nella e con la diversità ( cfr Lc 4,18-19; Is 61,1-2). Questa forza può creare un mondo nuovo: può “rinnovare la faccia della terra” (cfr Sal 104, 30)!
Rafforzata dallo Spirito e attingendo ad una ricca visione di fede, una nuova generazione di cristiani è chiamata a contribuire all’edificazione di un mondo in cui la vita sia accolta, rispettata e curata amorevolmente, non respinta o temuta come una minaccia e perciò distrutta. Una nuova era in cui l’amore non sia avido ed egoista, ma puro, fedele e sinceramente libero, aperto agli altri, rispettoso della loro dignità, un amore che promuova il loro bene e irradi gioia e bellezza. Una nuova era nella quale la speranza ci liberi dalla superficialità, dall’apatia e dall’egoismo che mortificano le nostre anime e avvelenano i rapporti umani. Cari giovani amici, il Signore vi sta chiedendo di essere profeti di questa nuova era, messaggeri del suo amore, capaci di attrarre la gente verso il Padre e di costruire un futuro di speranza per tutta l’umanità.
Il mondo ha bisogno di questo rinnovamento! In molte nostre società, accanto alla prosperità materiale, si sta allargando il deserto spirituale: un vuoto interiore, una paura indefinibile, un nascosto senso di disperazione. Quanti dei nostri contemporanei si sono scavati cisterne screpolate e vuote (cfr Ger 2,13) in una disperata ricerca di significato, di quell’ultimo significato che solo l’amore può dare? Questo è il grande e liberante dono che il Vangelo porta con sé: esso rivela la nostra dignità di uomini e donne creati ad immagine e somiglianza di Dio. Rivela la sublime chiamata dell’umanità, che è quella di trovare la propria pienezza nell’amore. Esso dischiude la verità sull’uomo, la verità sulla vita.
Anche la Chiesa ha bisogno di questo rinnovamento! Ha bisogno della vostra fede, del vostro idealismo e della vostra generosità, così da poter essere sempre giovane nello Spirito (cfr Lumen gentium, 4). Nella seconda Lettura di oggi, l’apostolo Paolo ci ricorda che ogni singolo Cristiano ha ricevuto un dono che deve essere usato per edificare il Corpo di Cristo. La Chiesa ha specialmente bisogno del dono dei giovani, di tutti i giovani. Essa ha bisogno di crescere nella forza dello Spirito che anche adesso dona gioia a voi giovani e vi ispira a servire il Signore con allegrezza. Aprite il vostro cuore a questa forza! Rivolgo questo appello in modo speciale a coloro che il Signore chiama alla vita sacerdotale e consacrata. Non abbiate paura di dire il vostro “sì” a Gesù, di trovare la vostra gioia nel fare la sua volontà, donandovi completamente per arrivare alla santità e facendo uso dei vostri talenti a servizio degli altri!
Fra poco celebreremo il sacramento della Confermazione. Lo Spirito Santo discenderà sui candidati; essi saranno “segnati” con il dono dello Spirito e inviati ad essere testimoni di Cristo. Che cosa significa ricevere il “sigillo” dello Spirito Santo? Significa essere indelebilmente segnati, inalterabilmente cambiati, significa essere nuove creature. Per coloro che hanno ricevuto questo dono, nulla può mai più essere lo stesso! Essere “battezzati” nello Spirito significa essere incendiati dall’amore di Dio. Essersi “abbeverati” allo Spirito (cfr 1 Cor 12,13) significa essere rinfrescati dalla bellezza del piano di Dio per noi e per il mondo, e divenire a nostra volta una fonte di freschezza per gli altri. Essere “sigillati con lo Spirito” significa inoltre non avere paura di difendere Cristo, lasciando che la verità del Vangelo permei il nostro modo di vedere, pensare ed agire, mentre lavoriamo per il trionfo della civiltà dell’amore.
Nell’elevare la nostra preghiera per i confermandi, preghiamo anche perché la forza dello Spirito Santo ravvivi la grazia della Confermazione in ciascuno di noi. Voglia lo Spirito riversare i suoi doni in abbondanza su tutti i presenti, sulla città di Sydney, su questa terra di Australia e su tutto il suo popolo. Che ciascuno di noi sia rinnovato nello spirito di sapienza e d’intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di pietà, spirito di santo timore di Dio!
Attraverso l’amorevole intercessione di Maria, Madre della Chiesa, possa questa XXIII Giornata Mondiale della Gioventù essere vissuta come un nuovo Cenacolo, così che tutti noi, ardenti del fuoco dell’amore dello Spirito Santo, possiamo continuare a proclamare il Signore risorto e attrarre ogni cuore a lui. Amen!

domenica 20 luglio 2008

10 - Come si fa a voler bene - "La sapienza del cuore" - (di Padre Fabrizio CARLI)


Muovere dunque anche il cuore all’amore, quell’amore che è voler bene. È questo un meraviglioso potere che l’uomo ha e forse ignora o non è abituato ad usare. Ed è invece il segreto perché, possa giungere ad amare con tutto se stesso; ed è forse l’aspetto più delicato, più prezioso e più bello del comandamento dell’amore.Per muovere il cuore ad amare dobbiamo vedere il nostro prossimo in una luce che ce lo renda amabile. Il segreto per amare è proprio qui. Non si può pensare che l’amore per il prossimo nasca in noi istintivamente, perché l’istinto - come si è già detto - ci può portare solo verso qualche determinata persona, con cui ci si senta in sintonia e simpatia, mentre noi dobbiamo amare tutti: anche chi non ci è simpatico, anche chi suscita in coi un istintivo sentimento di avversione.Occorre quindi saper trovare in ogni persona tutte le ragioni che vi sono per amarla. Queste ragioni o verità le vede l’intelligenza; ma quando l’intelligenza vede, può muoversi anche la volontà, dalla quale segue l’affetto del cuore. E allora si può comprendere quanto sia importante saper scoprire e vedere tutti i motivi o le ragioni che vi siano sempre per amare ogni persona, nessuna eccettuata.La ragione più grande - come dicevamo più sopra – è che in ogni uomo dobbiamo scorgere Cristo che ci viene incontro per essere da noi amato in quella persona concreta, qualunque essa sia. Se noi riusciamo a persuaderci profondamente di questa verità, vediamo ogni uomo in una luce che ce lo renderà amabile; l’apprezzamento che ne faremo in questa luce, ci porterà a volergli bene; e più sapremo capire e convincerci che in ogni uomo ci viene incontro Cristo, tanto più crescerà il nostro amore, al punto che anche il cuore parteciperà con la sua tenerezza e il suo calore. Basterebbe questo grande motivo per muovere il cuore ad amare; ma può esserci anche di vero aiuto tener presente che l’inizio dell’amore è nell’apprezzamento, nella valutazione, nella stima che l’intelligenza deve fare delle persone.Quando vediamo e riconosciamo i pregi e il valore di una persona, nasce in noi di conseguenza anche la stima, e alla stima segue l’affetto, cioè quel sentimento che ci porta ad abbracciare quella persona in tutto il suo valore, godendo di ciò che essa è, e volendo che abbia quel bene. Quanto più poi aumenta la stima tanto più cresce l’affetto, che si può estendere alla parte sensitiva della natura umana, per quello stesso nesso fra tutte le potenze fisiche e spirituali dell’uomo, a cui abbiamo già accennato. Si può comprendere meglio questo, considerando come esempio un caso, non difficile a riscontrarsi nell’esperienza comune: il caso cioè in cui con l’andare del tempo si può giungere a nutrire un affetto sincero anche per una persona che all’inizio ci era antipatica.Ebbene, che cosa è avvenuto in tal caso dentro di noi? Conoscendo meglio quella persona, scoprendo in essa dei lati buoni, apprezzandone certe qualità, abbiamo modificato via via il nostro giudizio fino a giungere ad una valutazione migliore: a questo atto di riconoscimento interiore è seguita la stima e alla stima l’affetto., perché, è questo il procedimento naturale degli atti umani nel campo morale.A modificare il fatto istintivo dell’antipatia, è intervenuta l’intelligenza, che ha man mano visto e scoperto dei motivi di apprezzamento. La valutazione razionale è stata perciò la causa e l’inizio di quel processo interiore che dall’antipatia istintiva ha portato successivamente all’affetto vivo e profondo. Si potrebbe forse obiettare che in tal modo noi non amiamo il prossimo in se stesso, ma un’immagine che ce ne facciamo. Se se pensasse così, si ignorerebbe la natura dell’amore: altro è infatti il motivo dell’amore, altro il suo contenuto. Il motivo è sempre nell’ordine ideale, perché, si tratta di una ragione che la mente vede e comprende; il contenuto dell’amore è invece il suo donarsi alla persona reale. Il motivo non costituisce l’amore: lo suscita, semplicemente: non si ama il motivo, si ama la persona per la quale vi è quel motivo per amarla.Oltre a quello già esposto, cioè che in ogni uomo ci viene incontro Cristo per essere amato, vi sono ancora altri motivi che possono muoverci ad amare il prossimo. Ad esempio, possiamo tenere presente che ogni uomo è creatura di Dio; siamo tutti figli dello stesso Padre che amandoci ci ha creati destinandoci al gaudio eterno in lui; tutti siamo stati redenti dal sangue del Figlio suo e in tutti si è effuso il suo amore; siamo tutti partecipi dello stupendo disegno di bene che Dio va perseguendo nell’universo attraverso le vicende che ci toccano tutti e talvolta anche tragicamente. Ancora, non dobbiamo dimenticare che ogni uomo è carico del suo peso di prove e sofferenze; anche chi può sembrare spensierato magari porta grandi pene nascoste nel cuore; chi ci passa accanto ed è per noi forse soltanto un estraneo, può avere in se, tanta solitudine e bisogno di attenzione e di amore; perfino chi appare sicuro e forte, forse nell’intimo può essere totalmente diverso. In questo contesto ci pare opportuno richiamare una pagina scritta anni fa, ma che troviamo perfettamente aderente a quanto andiamo dicendo. La riproponiamo, quindi, precisando che si tratta dei motivi specifici che i coniugi possono trovare in più per rinnovare quotidianamente la loro reciproca dedizione.“Sono tanti i motivi che un’anima di buona volontà può trovare per la sua dedizione costante, in cui si manifesta il vero amore. Anzitutto, ciascuno dei coniugi pensi davvero che la persona che gli sta accanto, è quella che un giorno ha creduto in lui, che gli si è affidata per la vita, in fiducia e in abbandono. Il non sentire più questo, è venir meno non solo ad una promessa, ma ad una fiducia che era stata posta in noi; è un tradire qualcosa in cui un’altra creatura aveva creduto, su cui aveva costruito per la vita. Se poi si pensa che la persona che ci vive al fianco ha condiviso tutte le nostre gioie e le nostre pene, ha magari sopportato con noi e per noi situazioni difficili, ha colmato con la sua presenza tante ore in cui sia aveva bisogno di una compagnia, si è tante volte prodigata nell’adempimento umile e silenzioso del proprio dovere; se si pensa a tutto questo si troverà un altro “motivo” per vederla sotto una luce migliore, per sentirla più vicina, per inclinare il cuore ad amarla. Bisognerebbe richiamare alla mente queste cose ogni giorno. Appunto perché, nell’usura quotidiana l’abitudine toglie slancio all’anima, bisogna rinnovare “volutamente” i sentimenti e gli affetti, rifacendosi ai motivi che valgono sempre. Spontaneamente questo non succede: si deve quindi intervenire con la volontà. L’amore nella sua parte più bella e più elevata, è soprattutto “voler” bene”. (Remo Bessero Belti, Veramente insieme, Ed. Paoline, Milano 1969, pp. 60-61).Non c’è alcuna persona, insomma, che non abbia bisogno di comprensione e di bontà. Ebbene, se ci convinciamo di questo, non ci sarà difficile abbracciare tutti nel nostro amore, proprio perché tutti sono dati al nostro amore.

Vangelo della XVI Domenica del Tempo Ordinario - Anno A

Vangelo Mt 13, 24-43
Lasciate che l'una e l'altro crescano insieme fino alla mietitura.

Dal vangelo secondo Matteo
[ In quel tempo, Gesù espose alla folla una parabola: «Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l'una e l'altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio». ]Un'altra parabola espose loro: «Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami». Un'altra parabola disse loro: «Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fermenti». Tutte queste cose Gesù disse alla folla in parabole e non parlava ad essa se non in parabole, perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta: "Aprirò la mia bocca in parabole, proclamerò cose nascoste" fin dalla fondazione del mondo. Poi Gesù lasciò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si accostarono per dirgli: «Spiegaci la parabola della zizzania nel campo». Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il Figlio dell'uomo. Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno, e il nemico che l'ha seminata è il diavolo. La mietitura rappresenta la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell'uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi, intenda! ».

sabato 19 luglio 2008

9 - Voler bene - "La sapienza del cuore" - (di Padre Fabrizio CARLI)


Si può sintetizzare quanto siamo venuti finora dicendo, nell’espressione voler bene, per indicare in che cosa deve consistere l’amore verso il prossimo che deve precedere ed animare qualunque opera esteriore che compiamo in suo favore. Il voler bene comporta qualcosa che l’anima può sempre dare, può sempre alimentare, può sempre crescere; qualcosa che dipende unicamente da lei. E quindi, proprio per questo, può essere comandato. Dal fatto, però, che può essere comandato, non consegue che il voler bene sia qualcosa di imposto, privo di calore. Se ci appelliamo al cuore, e cioè alla fonte di tutta la nostra affettività, ci accorgiamo che esso, proprio nel voler bene, trova un contenuto così profondo e umano, così personale e rassicurante, da rimanere pienamente appagato. E ciò che appaga il cuore, non può essere qualcosa di freddo. Nel testo latino del nuovo Testamento, quando si parla dell’amore del prossimo, viene usata di preferenza la parola “dirigere”. Nella lingua latina vi è anche la parola amare; ma fra l’una e l’altra vi è una profonda differenza. L’amare indica l’amore istintivo, il moto spontaneo del cuore e l’animo, che nasce dal sentirsi attratti verso qualcuno e può portare anche verso ciò che non è onesto; “dirigere”, invece, formato dal prefisso de e dal verbo legere, significa vedere e cogliere tutti i motivi e le ragioni che vi sono per amare; denota, cioè, un amore che è frutto di apprezzamento di intelligenza e di volontà.Quando diciamo “voler bene”, viene spontaneo riferirsi alla “volontà” che deve muoversi al bene, all’amore, che deve cioè portarci ad amare; ma sappiamo che la volontà si muove soltanto verso ciò che conosce, ossia verso ciò che l’intelligenza le fa vedere: non si può infatti volere ciò che non si sa, non si conosce. Nel voler bene, quindi, entra prima di tutto l’intelligenza che fa vedere alla volontà ciò che essa deve amare. Ma l’uomo non è soltanto intelligenza e volontà: è anche sentimento, è anche “cuore”. Ora, quando la volontà si muove verso il bene visto alla luce dell’intelligenza, per il nesso vitale e dinamico che vi è fra tutte le potenze e le energie umane, essa muove anche la parte sensitiva e affettiva dell’uomo, ossia il “cuore”, con quegli affetti e sentimenti che solo esso può nutrire. È tutta la realtà dell’uomo, quindi, che si esprime nel voler bene. Quando noi vogliamo davvero bene, tutto questo lo viviamo semplicemente, senza chiederci che parte vi abbia l’intelligenza o la volontà o il cuore; quello che importa, infatti, è volere effettivamente bene al nostro prossimo. Ma la riflessione che stiamo facendo può farci luce sulla capacità che noi abbiamo di muovere il cuore perché possa amare sempre più illuminatamente e quindi sempre più intensamente. La finissima disciplina interiore di cui si diceva all’inizio, deve consistere proprio nel coltivare il cuore in tutta la sua ricchezza e nell’illimitata sua capacità di bene e di amore. Solo così possiamo giungere ad amare come Gesù ci ha amati. Non si può infatti pensare che egli non ci abbia amato anche con tutta l’intensità del cuore umano, con tutto il suo calore e la sua tenerezza: sarebbe ignorare le più belle pagine del vangelo, e soprattutto sarebbe togliere qualcosa all’integrità della sua natura umana. Quando perciò egli dice ai suoi discepoli di amarsi come egli li ha amati, indubbiamente vuole che in quell’amore ci sia anche tutto il cuore dell’uomo.

venerdì 18 luglio 2008

ASCOLTARE LA VITA - (a cura di Padre Valter ARRIGONI)


“Gli uomini del mondo hanno dimenticato le gioie del silenzio e la pace della solitudine che pur sono necessarie,in qualche misura, alla pienezza di una vita umana. Non tutti sono chiamati ad essere eremiti, ma tutti abbisognano di quel tempo di silenzio e di solitudine che permetta loro di avvertire, almeno di tanto in tanto, nel profondo, la segreta voce del loro più vero essere”. Questo scriveva nel cinquantasette Thomas Merton. Lui che aveva percorso le strade dell’Europa, degli States e dell’America Latina. Lui che aveva percorso strade ben più contorte dell’esistenza e del pensiero. Passando dall’ateismo alla fede fino a farsi monaco trappista, eremita, morto durante un incontro interreligioso, di monaci cattolici, ortodossi, buddisti, a Bangkok, fautore di pace fra gli uomini proprio a partire dalla fede che unisce e non divide.
Mentre scrivo, qui sotto la mia finestra, dei grilli e delle cicale non cessano di frinire. Ci sono diversi uccelli che cantano. Le fronde degli alberi suonano al vento.
Questa notte mi sono alzato per prendere una coperta perché faceva fresco!
Gli unici rumori che giungono alle mie orecchie, abituate al frastuono della via Arpi, vengono dalla natura. Le auto, le moto sono così lontane da essere impercettibili.
La verità dell’uomo, la mia verità. L’unità di me stesso. La ragione del mio vivere. Cercata da tempo perché persa da tempo. Mi sono accorto che sono diventate troppe le cose da fare. Mi sono accorto di aver bisogno del silenzio e della solitudine perché anche le parole erano diventate troppe e non erano più capite. Una parola detta ha mille fraintendimenti, una parola scritta ne ha solo cento. Forse anche perché una parola scritta viene dal silenzio, dal profondo dell’essere, dalla verità di quello che sono o almeno cerco di essere. Una parola taciuta e messa nel silenzio dell’anima, nella preghiera, nel cuore di Dio e quindi dell’umanità arriva dove non posso pensare di giungere io.
Sono qui per vivere in un tempo consistente quello che dice il salmo, la parola che mi ha consegnato, per questo tempo, un amico monaco: “sta in silenzio davanti a Dio e confida nella sua Parola”.
Chi cerca se stesso si trova solo in Dio. Chi cerca Dio trova l’uomo. Se avessi vissuto e testimoniato questa verità! Invece anche la verità della fede per molti è diventata così lontana, oggetto di ideologie, causa di divisioni e di lotte, di guerre politiche, di una morale lontana, fredda, quasi invivibile nella sua disumanità.
La frase di Gesù nel Vangelo di questa domenica quattordicesima del Tempo ordinario è risuonata questa mattina nel silenzio della piccola chiesa dell’eremo. Eravamo soli io e fra Daniele, eremita da trentotto anni. Eravamo solo noi ma c’erano davanti a me i volti di tutti, le storie di tutti, la vita di tutti coloro che il Signore mi ha fatto incontrare in questo segmento della mia vita. In questi venti anni da prete a Foggia. La gente che ha riempito la Messa soprattutto la domenica sera. Le persone che mi hanno cercato per trovare Dio, per sentire la sua Parola.
A loro, ma prima ancora a me stesso, Gesù ha detto oggi:
“Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza”.
Chi sono “i sapienti e i dotti”? Blaise Pascal scrive nei suoi pensieri: “come è strano il nostro modo di pensare: ammiriamo nei quadri ciò che nella realtà neppure ci interessa!”. I dotti ed i sapienti sono coloro che non ascoltano la vita, che non guardano la realtà ma che pensano, sono sofisti, sono quelli che sono convinti che il reale sia ciò che pensano. La vita sono i loro desideri. Gli altri sono come loro li pensano. Le azioni che compiono sono giuste semplicemente perché pensate e compiute da loro. Le loro parole diventano la realtà. Nella storia della filosofia c’è il movimento dei nominalisti cioè di quelli che affermavano che una cosa diventa vera se è detta, se ha un nome. “Ti voglio bene e questo è vero solo per il fatto che te lo dico”. “Ti sono amico!”. Nella mia vita ci sono state persone che nei cinquanta giorni di ospedale dopo l’infarto non sono mai venute a trovarmi. Persone che non sono mai venute con me nelle carceri a trovare i detenuti e che non mi hanno mai accompagnato. Persone che lavorano a dieci metri da casa mia e mi hanno visto disperato ma non hanno trovato due minuti per stare con me. Ma queste persone mi dicono sempre di essere mie amiche. Mi dicono di potermi fidare di loro. Di poterle chiamare ogni volta che ho bisogno perchè sono “a disposizione”. Peggio dei politici!
Nominalisti! Quello che dico è vero solo perché lo dico.
Questo non mi è bastato più. Io stesso mi sono accorto di essere diventato parole e non essere. Non fatti.
A un certo punto parlavo di cose ma non comunicavo più l’unico bene della mia vita: Gesù Cristo.
Voglio viverlo. Voglio stare con lui.
Voglio ricuperare il rapporto di conoscenza, di amore, di fisicità come quel giovedì ventinove giugno millenovecentosettantadue quando entrò nella mia vita, mi prese per mano e mi portò in cielo con Sé.
Ultimamente mi sono sentito diviso come le tessere di un mosaico che hanno senso solo dentro un disegno. Lui è il mio disegno. Solo Lui sa che posto occupa nel disegno della storia dell’umanità il mio tassello. La mia tessera.
Fermarsi ed ascoltare la vita è sentire la sua voce che mi svela questo disegno, questo progetto. E’ scritto nella vita. E’ detto, sussurrato da Dio nella voce del tempo.
Occorre uscire, andare fuori dal rumore della città, delle cose da fare ed ascoltare.
Ascoltare la vita. Ascoltare il proprio cuore vuol anche dire essere veri fino alla crudeltà con se stessi. Ma è l’unico modo per sentire, per ascoltare, per scoprire, per essere, per vivere.
Sono qui nel silenzio e nella solitudine. Mi sono compagne la natura, la Parola, la vita.

Arrigoni Valter

SONO UN PELO SU UNA ZAMPA DI UNA FORMICA - (a cura di Padre Valter ARRIGONI)


“Io sono un pelo su una zampa di una formica”, questo ho pensato domenica mentre facevo una lunga camminata attraverso il bosco. Guardavo gli alberi e pensavo all’immensità dell’universo. Ero solo una piccolissima cosa nel bosco, su una piccola collina nel mondo. E la terra non è che un pianeta, e neppure il più grande, di una delle tante stelle. E il sole è solo la stella che abbiamo più vicino. La notte, mentre esco a pregare le veglie, guardo il firmamento e le stelle, milioni, che lo costellano. Qui non ci sono città, lampioni, luci artificiali, ed allora si vede il cielo come non lo si vede altrove.
Ho pensato anche a me fra gli esseri umani, più di sette miliardi, adesso! E quanti uomini sono passati sulla terra da quando il primo ha fatto la sua apparizione! Ognuno con la sua storia. Ognuno con un cuore affamato ed assetato di essere amato e di amare. Ognuno con le sue gioie, i suoi dolori, le sue speranze, le sue delusioni. La forza e la debolezza. La salute e la malattia. La vita e la morte.
Il tempo, le centinaia di migliaia di anni davanti ai quali la mia vita, i pochi anni dei quali è fatta che passano, sono passati, è come “il fiore del campo che di mattina è rigoglioso e la sera è falciato e dissecca … come il giorno di ieri che è passato … come un turno di veglia nella notte”.
Eppure ognuno di noi certe volte vive come se fosse il perno dell’universo! Ognuno di noi pensa di essere il centro! Ognuno pensa che tutto e tutti gli girino attorno!
Eppure c’è qualcosa che fa del “pelo su una zampa di una formica” che sono io un essere umano! Colui per il quale tutto è stato creato. Una persona voluta, amata, pensata, “progettata” dal grande architetto che ha fatto tutto in grande. Dio non ha fatto tutto immenso per farmi sentire “verme e non uomo” ma perché di fronte alla mia piccolezza fossi stupito, colpito, riempito, rasserenato, fatto forte, roccioso, indistruttibile, consistente dal suo amore. Sì, perché su di me si è chinato Colui che è potente. L’artefice e Signore del cielo e della terra non ha disdegnato me, sua creatura, ma si è fatto come me. E’ diventato anche Lui piccolo. Infinitamente piccolo. Anche Lui è stato uno dei miliardi di esseri umani. I suoi piedi hanno calpestato una piccola regione, un granello di sabbia di fronte all’universo. E’ nato in una regione piccola, fatta di uomini che non lo hanno capito, anzi lo hanno condannato a morte e lo hanno crocifisso senza pietà solo perché dava fastidio ai potenti (anche religiosi!) del suo tempo.
Gesù è la tenerezza del Padre per me. Gesù è colui per il quale io non sono uno dei tanti, ma l’amato da lui. Non uno, ma il solo. Non l’anonimo, ma Valter, il suo Valter. Con Gesù il rapporto è “io – tu”. Questo è il rapporto che mi costituisce, che mi fa essere. Questo è il mio DNA. Come diceva YHWH a Giona: “Ho sempre protetto Giona con l’ombra della mia misericordia, mi hai ora perduto di vista, Giona, figlio mio? Misericordia nella misericordia nella misericordia.” Sono fatto di lui, essenzialmente, quando sono anche io misericordia.
In questi giorni mi sono fermato a meditare tanto sulle volte che il Vangelo ci dice “che Gesù provò compassione e pianse sulle folle perché erano come pecore sperdute senza pastore”. Eppure al suo tempo Israele aveva una gerarchia religiosa. C’erano scribi , farisei, maestri della legge, sacerdoti del Tempio di Gerusalemme e capi nelle sinagoghe sparse per il mondo allora conosciuto. Perché Gesù si commuove e piange?
Il profeta Osea scrive:” il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione”.
L’intimo di Dio, il suo grembo fecondo (i padri della Chiesa, che non avevano paura delle parole, lo chiamavano “l’utero di Dio”) è la compassione.
Per questo Gesù si commuove e piange sugli uomini che non hanno pastori perché non hanno nessuno che abbia compassione di loro.
Compassione è una parola che ha acquisito per noi una accezione negativa ma è una parola bellissima. In greco si dice simpatia. Avere gli stessi sentimenti. Sentire insieme. Patire insieme. Provare le stesse emozioni.
Voglio essere simpatico! Avere lo stesso sentimento di Dio.
La sua compassione infatti è la fonte della sua misericordia, della sua tenerezza, del suo amore per tutto il creato. Sentiamo nella lettera di Paolo ai Romani questa domenica che tutta la creazione geme anch’essa in attesa del parto che la rigenererà al paradiso voluto dal Padre per tutto il creato. Il paradiso perduto a causa dell’uomo e del suo superbo egoismo. Il salmo responsoriale ci parla di Dio che fa germogliare la terra per tutti, per dare grano a tutti e pane ad ogni uomo. Di fronte a questa volontà di Dio, che ama tutti, per il quale tutti sono figli, mi viene in mente la situazione attuale di nazioni, come l’Argentina, che usa il grano per farne alternative al petrolio. A chi le fa notare che così si affamano le persone la presidentessa risponde che non si può far perdere il guadagno ai proprietari delle terre!
Mi guardo attorno e non vedo la compassione!
Compassione che mi mette nel cuore del creato, dell’umanità, della storia.
Compassione che è il nome di Dio anche per i buddisti, per i mussulmani. Che è l’intimo di YHWH. Compassione che genera amore.
Voglio essere il compassionevole. Solo questo!
Simpatico a Dio avendo il suo stesso sentimento.
Simpatico agli uomini perché come dice san Paolo: “piango con chi è nel pianto e rido con chi è nella gioia”.
Simpatico al creato perché ho a cuore anche la più piccola creatura, l’ago del pino, la formica, il sasso.
Simpatico a me stesso perché amo chi sono, come sono stato voluto, la mia storia, il mio carattere, i talenti, i doni, la vocazione, la mia gente, la mia città, il mio tempo.
Piango guardando a distanza le luci dei paesi e pensando all’umanità che ci abita. In questi giorni sono sempre più sceso nel profondo di me stesso e mi sono accorto di essere diventato con gli anni sempre più egocentrico, centrato su me stesso. Questa è stata la causa di tanta sofferenza inutile per me e per chi mi stava vicino.
L’uomo di Dio non è il centro del mondo e dell’universo perché tutto e tutti girano attorno a lui, perché tutto e tutti gravitano attorno al suo cuore ma perché tutto e tutti sono dentro il suo cuore. Perché ha compassione di tutto e di tutti.
Penso in particolare ai nostri fratelli ed alle nostre sorelle che sono venuti in Italia dai paesi extracomunitari e che sono finiti a spacciare droga, a rubare, a prostituirsi sulle nostre strade.
Cosa abbiamo fatto incontrare loro? Cosa siamo stati capaci di proporre loro? Soldi, potere, piacere, consumismo, cose! Chi ha fatto incontrare Gesù, il suo amore. Una comunità accogliente e fraterna. Una Chiesa? Dio?
Forse anche noi, forse anche io, abbiamo perso il senso religioso della vita. Una vita senza Dio non è vita. Da una fonte fangosa e sporca non può scaturire acqua pura, fresca, dissetante ma solo liquame, malaria, peste.
E’ il tempo, siamo ancora in tempo, per rincentrare la vita! Rimettere al centro la vita, la verità, Gesù, la vera via verso la vera vita.
Un monaco famoso negli anni settanta, Thomas Merton, passato attraverso l’ateismo, il marxismo, ed approdato al cattolicesimo tanto da farsi monaco trappista ha scritto una poesia per il fratello morto in guerra. Prego spesso questa poesia pensando all’umanità che Dio mi ha fatto incontrare e per la quale non sono stato simpatico, compassionevole. Merton ha un senso di colpa verso questo suo fratello, più giovane, per averlo tagliato sempre fuori dalla propria vita, per non averlo accolto e non aver condiviso con lui niente. Solo dopo la morte ritrova nel suo cuore le parole che non ha mai saputo dirgli.
Dedico queste parole a tutti coloro che non si sono sentiti accolti da me ma anche ai fratelli e alle sorelle spacciatori, ladri e prostitute anche per colpa mia.
“Dolce fratello, se ora più non dormo
Sian fiori alla tua tomba gli occhi miei,
E se mangiar non posso il pane mio,
Piangenti salici vivan dei miei digiuni
Là dove tu moristi.

Se nell’arsura acqua non trovo alla sete mia,
La sete mia fonte per te divenga,
Compagno mio di viaggio sventurato.
Vieni, nella mia fatica trova ora un luogo
per il tuo riposo.

Quando tutti i suoi morti la guerra avrà già avuto,
E in polvere saran finite le bandiere,
La tua croce e la mia diranno al mondo ancora
Che Cristo in ognuno è morto, Cristo per ognuno di noi.
Perché nel disastro del tuo aprile
E’ proprio Cristo che giace ucciso,
Ed è ancora Cristo che sulle rovine piange
Della primavera mia:

Cadrà il prezzo di quelle lacrime
Sulla mano tua debole e abbandonata,
Per restituirti ancora alla tua terra:
Cadrà di quelle lacrime il silenzio
Come suon di campane sulla tomba tua straniera

Ascoltale e torna: ti chiamano a casa.
Arrigoni Valter

Pellegrinaggio in Terra Santa "IL CAMMINO DELL'ESODO" (Viaggio organizzato dai fratelli di Foggia - Parrocchia della Madonna del Rosario)


PROGRAMMA

IL CAMMINO DELL´ESODO CON I LUOGHI EVANGELICI
7 – 16 NOVEMBRE 2008

1 ° GIORNO: BARI/ ROMA/CAIRO. Partenza con volo di linea nazionale per Roma, coincidenza con il volo internazionale per il Cairo. Arrivo al Cairo, incontro con la guida, giro panoramico della città con visita alla moschea di Ibn Tulun. Trasferimento in hotel, cena e notte.

2° GIORNO: CAIRO / WADI NATRUN / CAIRO MUSEO ARCHEOLOGICO Prima colazione in albergo, partenza di buon mattino per il Wadi Natrun per la visita ad un antico monastero del 4°/5° secolo d.C. tuttora funzionante, questa regione era la famosa Scete dei "padri del deserto" i precursori del monachesimo benedettino. Rientro al Cairo per la visita alle famose piramidi di Ghiza e alla sfinge. Pranzo in corso di escursione. Nel pomeriggio visita del museo archeologico con il famoso tesoro del faraone Tutankamon e la stele del faraone Merneptha, testimonianza preziosa sull'Esodo. Rientro in albergo, cena e notte.

3° GIORNO: CAIRO / SANTA CATERINA Prima colazione in albergo. Tutta la mattina sarà dedicata alle visite del quartiere cristiano con i ricordi della Sacra Famiglia e il museo copto. Pranzo in corso di escursione. Nel pomeriggio partenza in pullman per il Sinai, attraversato il canale di Suez ci si inoltra nel deserto montagnoso della penisola sinaitica e attraverso un paesaggio desertico unico nel suo genere si raggiunge il Monastero fortezza di s. Caterina. Sistemazione nel villaggio, cena e notte.

4°GIORNO: MONTAGNA DI MOSE´/ MONASTERO DI S. CATERINA /TABA/AQABA/PETRA.
Di buon mattino (ore 02.00), trasferimento ai piedi della Santa Montagna e salita alla vetta della Teofania per assistere all´alba. Ridiscesa dalla Santa Montagna e prima colazione in albergo, a metà mattinata visita all´antico monastero-fortezza di Santa Caterina che racchiude preziosi tesori dell'arte bizantina e il ricordo tradizionale del roveto ardente. Partenza per Taba. Attraversata con battello del mar Rosso con arrivo ad Aqaba sulla sponda Giordania. Incontro con la guida e trasferimento in bus riservato a Petra, albergo, cena e notte.

5°GIORNO: PETRA/AMMAN. Prima colazione in albergo ed inizio della visita alla città nabatea: Ingresso all'interno della città attraverso la suggestiva gola "il Siq" arrivo al grande monumento del "Tesoro", salita all'altare dei sacrifici e ridiscesa dal versante opposto passando presso " la fontana del leone" e "la tomba del soldato romano". Teatro romano, " la Cattedrale", i resti del grande tempio. Nel pomeriggio partenza per Amman, sistemazione in albergo, cena e notte.

6°GIORNO: AMMAN/ MA´IN/ MT. NEBO/ GERASA/ NAZARETH. Partenza di buon mattino per il villaggio di Ma'in in cui vive una comunità arabo-cristiana, sostenuta dalla presenza della "Piccola famiglia dell´Annunziata" comunità monastica italiana.
Proseguimento per la vicina cittadina di Madaba, che custodisce il famoso mosaico di "Madaba" unica rappresentazione, sotto forma di mosaico, della Palestina del V° sec. Ultima visita della mattinata al Monte Nebo con il memoriale della morte di Mosè. Pranzo in ristorante locale. Nel pomeriggio visita ai resti molto ben conservati della città greco-romana di Gerasa, facente parte della Decapolis evangelica . Al termine della visita discesa nella depressione giordanica e passaggio del confine giordano-israeliano e proseguimento per Nazareth, sistemazione in albergo, cena e notte.

7°GIORNO: NAZARETH/LAGO DI TIBERIADE. Prima colazione in albergo, celebrazione eucaristica nella basilica dell´Annunciazione e breve visita agli scavi dell´antico villaggio, trasferimento al Lago di Tiberiade, pranzo e visita dei santuari posti lungo le rive del lago di Tiberiade: Beatitudini, Moltiplicazione dei Pani e dei pesci, Primato e Cafarnao. Al termine delle visite rientro in hotel, cena e notte.

8°GIORNO: NAZARETH / GERICO / QUMRAN / MAR MORTO / BETLEMME. Prima colazione in albergo e partenza per la Giudea costeggiando il fiume Giordano si arriva a Gerico, visita ai resti della Gerico biblica, Qumran, luogo dove sono stati trovati i famosi antichi manoscritti delle Sacre Scritture, ultima visita al mar Morto. Nel primo pomeriggio si raggiunge Betlemme, visita alla Basilica e Grotta della Natività con celebrazione Eucaristica. Sistemazione in hotel, cena e notte.

9° GIORNO: BETLEMME / BETANIA/MT. DEGLI ULIVI/CENACOL In mattinata Triduo Pasquale sui luoghi della Passione, Morte e Resurrezione di N.S.G.C. Cenacolo, Sommità del Monte degli Ulivi, Dominus Flevit, Getsemani. Nel pomeriggio Via Crucis e Santo Sepolcro con celebrazione Eucaristica. Rientro in hotel, cena e pernottamento.

10°GIORNO:GERUSALEMME / AEROPORTO DI TEL AVIV/ITALIA. Prima colazione in albergo e partenza per Gerusalemme per la visita al Muro del Pianto e alla spianata delle moschee al termine trasferimento all'aeroporto di Tel Aviv, partenza con volo internazionale per Roma, coincidenza con il volo nazionale per Bari.

NB. Il programma non è vincolante e per motivi organizzativi potrà subire cambiamenti, inversioni di visite ecc..

QUOTA DI PARTECIPAZIONE E CONDIZIONI

QUOTA DI PARTECIPAZIONE, IN CAMERA DOPPIA PER MINIMO 40 PAGANTI: 1.480,00 €

LA QUOTA, PER 10 GIORNI/9 NOTTI, COMPRENDE:
- Viaggio aereo nazionale Alitalia o altro vettore IATA: Bari/Roma F. / Bari .
- Viaggio aereo internazionale con voli di linea Alitalia o altro vettore IATA: Roma F. / Cairo e Tel Aviv / Roma F. in classe turistica con kg 20 di bagaglio.
- Sistemazione in Hotel 5/4/3 stelle. In camere a due letti con bagno e servizi privati.
- Pensione completa per tutto il pellegrinaggio, dalla cena del primo giorno al pranzo dell´ultimo.
- Visite ed ingressi come da programma con pullman GT riservato.
- Traghetto da Taba ad Aqaba.
- Guide locali parlanti italiano per ogni singolo paese.
- Accompagnatore spirituale (Padre Valter M. Arrigoni) per tutto il viaggio
- Assicurazione sanitaria e bagaglio di emergenza (prendere visione delle condizioni).
- Visto di ingresso in Egitto e Giordania,
- Tasse di uscita dall´ Egitto e dalla Giordania. (salvo variazioni governative).

LA QUOTA NON COMPRENDE:
- I trasferimenti per/da l'aeroporto nazionale italiano di partenza.
- Tasse aeroportuali nazionali e internazionali (Dato i continui aumenti dei costi carburante,
security ecc... costi che sono ora inglobati nelle tasse, si richiederà la quota corrispondente delle
tasse contestualmente all´emissione dei biglietti aerei, al momento circa 130 € ).
- Eventuali tasse d´ingresso in Israele
- Le mance (circa 50/ 60 €)
- Le bevande ai pasti.
- Eventuali altre tasse di frontiera.
- Supplemento camera singola 240 €.
- Assicurazione annullamento viaggio (25 €)
- Tutto quanto non espressamente indicato in programma e nella voce: "La quota comprende".
- Quotazione valida per minimo 40 partecipanti paganti.

* QUOTE CALCOLATE CON SERVIZI A TERRA E LE TARIFFE AEREE A MAGGIO 2008 E
CON IL CAMBIO DOLLARO US / EURO 1,00 /0,60 (PER PARTE DEI SERVIZI).
EVENTUALI ADEGUAMENTI DELLA QUOTA DI PARTECIPAZIONE DOVUTA A
VARIAZIONE DEL CAMBIO VALUTARIO SARANNO COMUNICATE ENTRO I 20 GIORNI
DALLA DATA DI PARTENZA.

Nb. E' necessario il passaporto individuale valido; che non sia in scadenza entro i sei mesi dalla data di rientro del viaggio. (Non importa se ci sono timbri di Israele o di altri paesi arabi).
Iscrizione 20,00 € ( Borsa, cappellino e libro guida dell’Esodo ) Acc.to 500,00 €


TERMINE ULTIMO DI ISCRIZIONE 30 SETTEMBRE 2008
Informazioni Carlo Bonfitto: 338/8466762