martedì 30 settembre 2008

Apparire... (di Maria Petti)


Riceviamo da Maria una riflessione ispirata da un articolo che affronta il problema dei media.


I “segni” religiosi
Superare un linguaggio logorato


Linguaggio e notizie “religiose” sono una presenza forte nei media. Scorrendo giornali, Tv, radio, film, pubblicità, Internet, ovunque troviamo segni che provengono dalla esperienza religiosa. Diventa quindi di importanza strategica interessarsi del fenomeno. Sia perché non tutto ciò che viene offerto è buono, sia perché l’etichetta “religiosa”, da sola, non basta. Ad esempio, la Bibbia in tivù può essere un fatto interessante. Ma è anche una sfida per coloro che tengono veramente al testo sacro. Perché per molte persone quello televisivo è e sarà l’unico contatto con la Bibbia, divenendo così, per loro, “la” Bibbia. Non sempre corrispondente, però, a livello di significati e di racconto stesso, all’originale. Una conoscenza che, di conseguenza, in partenza giunge “de-formata”.
Il sistema dei media è vorace di ogni tipo di contenuto, specie dei segni ricchi di senso. Ma l’uso è a proprio consumo, per fini propri. Ecco dunque il problema: i media, è questo il rischio, distorcono quanto maneggiano.
E, per quanto riguarda il sacro e il “religioso”, questo fatto ha delle conseguenze di rilievo. I media, assumendo il “religioso”, lo tolgono dal suo contesto naturale. Inserito nel palinsesto di una programmazione o nell’impaginazione di un giornale, il “religioso” si carica dei significati e delle emozioni provenienti dai messaggi entro cui si trova.
Verifichiamo, ad esempio, l’abuso che si fa della croce e del crocifisso.
Abbondantissima la sua presenza nella pubblicità.
Ma di quale croce si tratta? Un oggetto ornamentale, niente di più. Un segno prezioso ostentato. Anzi, furoreggia come moda. Si va dalla croce semplice e sobria sugli abiti, sino a quella dissacrante, irriverente che vediamo nel punk e nel metal. Ma anche la croce protagonista dell’abbigliamento di qualche sfilata. La si vede al collo di star come Madonna. Naomi Campbell, scollatissima, ne sfoggia anche tre a diverse altezze. È un gioiello sexy al collo di Anastacia. Cher non solo la porta al collo, ma esibisce pantaloni disseminati di croci. I re del rap (da Puff Daddy in giù) esibiscono al collo croci di diamanti e oro. Marylin Manson si circonda di croci. I Sex Pistols puntano alla trasgressione.
La moda ha catturato le mille sensazioni emanate dalla croce e ne ha fatto il gioiello per eccellenza: dai modelli più classici alle rivisitazioni coreografiche di Dolce & Gabbana, ai giochi e agli abbinamenti shock di Versace, che adorna le sue ladies miliardarie con croci di mille diamanti. È feticismo, adorazione, in bilico tra il sacro e il profano, tra passione e redenzione. Qualcosa in cui credere, qualcosa con cui vezzeggiarsi. Come le croci sui tessuti, sulle scarpe, sui gemelli; come orecchini o pendenti da una collana. Trasformata, giocata, divertente e preziosa, si esalta il suo potenziale decorativo. Visti certi contesti, è difficile parlare di simbolo religioso.
Di fronte a un linguaggio come quello religioso, logorato dai media, è necessario intervenire variando con fantasia la nostra comunicazione. Con nuovi mezzi, nuovi linguaggi, nuovi simboli forti. Provare e innovare continuamente.
Ed essere attenti, nel comunicare, non solo ai contenuti ma anche alla relazione. Le persone non cercano solo contenuti religiosi, ma una relazione, una esperienza di fede.
C’è una grande attesa. L’attesa, la nostalgia per un rapporto diverso con Dio, con una Chiesa diversa, con un prete differente che sta al tuo fianco.
C’è bisogno di Parola di Dio. Un tesoro troppo spesso comunicato in maniera morta. C’è la richiesta di dare voce alla Parola che dà senso, di curare prodotti culturali che vadano incontro a queste domande. La Parola di Dio va fatta conoscere, altrimenti, non comunicando più, perde il suo significato.
Nel sistema dei media di Christian Ricci - Tratto dal mensile bibliografico “Pagine Aperte” n. 4/2008 – Maggio 2008. Edizioni San Paolo
Approfitto di questo articolo che ho voluto inviarvi per testimoniare, nel mio piccolo, l’uso disincantato e provocatorio (ma provocare chi poi?) che si fa dei simboli religiosi; nel mio caso un Rosario. Un giorno, alla ricerca di foto da utilizzare per un lavoro, mi sono imbattuta su un blog dove era pubblicata una foto di nudo femminile: preso di spalle, seduto, con tanto di Rosario appeso al collo, in senso inverso data la posizione, la corona gli scendeva lungo tutta la schiena fino a far posare il crocifisso proprio sul fondoschiena… Non che io sia contraria ai nudi, purché artistici (questi esaltano la figura umana, il corpo e quindi l’operato di Dio), ma a quel nudo, seppure bello come forme e linee, non sapevo proprio dare una collocazione, chiedendomi cosa mai volesse comunicare, rappresentare.
Scrollando la testa, in senso di diniego, non scandalizzata per lo scempio ma dispiaciuta, questo sì, mi sono detta che il crocifisso meriterebbe più rispetto, perché rappresenta un uomo che sta soffrendo e morendo. Anche se magari non si è credenti, ma almeno il rispetto per la sofferenza lo vogliamo conservare? Almeno il rispetto per la sofferenza!

Maria Petti

lunedì 29 settembre 2008

19 - L'amore e il rinnegamento di sé - "La sapienza del cuore" (di Padre Fabrizio Carli)


La carità, cioè quell’amore che viene dalla sapienza del cuore, porta a vivere nel modo più vero e più positivo il rinnegamento d sé che Gesù Cristo pone come condizione alla sua sequela, quando dice ai suoi discepoli: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt 16, 24).Il rinnegamento di sé comporta la mortificazione continua di tutte le cattive tendenze che pullulano nella natura umana, dopo l’inquinamento del peccato. È la potatura senza la quale non si può portare frutto nella vita spirituale, e della quale amorosamente e sapientemente si incarica lo stesso Padre celeste, che è il principio della Vita: “Io sono la vera vite, dice Cristo, e il Pare mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglierò via; e quello che porta frutto lo poterò perché frutti di più” (Gv 15,1-2).Altrove Gesù parla addirittura di morte come condizione indispensabile per portare frutto nella vita spirituale, e ne parla col tono con cui annuncia le grandi verità: “In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la a vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (Gv 12,24-25).Ora, questo rinnegamento di sé, questa sua mortificazione, questo morire a sé stessi trova una continua attuazione nella pratica della carità cristiana. Essa infatti è l’amore per cui non amiamo più per noi stessi ma per Dio. E siccome l’amore è la voce più potente della natura umana, l’energia in cui si riassume tutto il nostro essere e quindi l’espressione più completa della nostra personalità, si comprende facilmente che indirizzando questo amore ad un fine che non è più la ricerca del nostro benessere, del nostro piacere, del nostro interesse, si abdica a se stessi, cioè ci si rinnega. Essendo inoltre l’amore il palpito della vita che pulsa in noi, amando non per noi stessi ma per Dio, non viviamo più per noi: moriamo a noi sessi per vivere di Dio. Nell’amare quindi, come vuole la carità cristiana, si attua il perfetto rinnegamento di sé.La cosa si fa più evidente se consideriamo ciò che la vera carità esige da noi. Mentre siamo facilmente portati a giudicare male, a pensare male, a parlare male degli altri, la carità impone invece una severa disciplina anche ai nostri atti più segreti e intimi, esige la massima delicatezza verso il prossimo in ogni minimo nostro atteggiamento. Mentre per natura siamo portati istintivamente a ricercare il nostro bene esclusivo, al carità invece cerca il bene degli altri; mentre spesso preferiamo stare rinchiusi in noi stessi, amiamo e cerchiamo il quieto vivere, o desideriamo in certi momenti che gli altri ci vengano incontro, si occupino di noi, ci comprendano, sappiano trovare la parola di sollievo e di conforto, la carità vuole invece che usciamo da noi stessi per abbracciare il prossimo, che dimentichiamo noi stessi per immedesimarci nella situazione altrui, che portiamo noi agli altri il conforto di una parola buona, anche se nel nostro intimo fossimo desolati, anche se nel nostro cuore vi fosse lo schianto.E proprio per questo, e cioè perché la carità cristiana comporta un continuo rinnegamento per l’uomo, essa è la massima espressione della vita spirituale.L’essenza infatti della vita spirituale è l’amore. Ora, “nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i suoi amici” (Gv 15,13). Amare il prossimo come esige la vera carità, è davvero dare la propria vita, morire a se stessi per vivere per gli altri e degli altri. Ma quale conforto ci viene dal Signore che dice: “Chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna” (Gv 12,25)!Ma ricercando il rinnegamento di noi stessi nell’attuazione della vera carità, arriviamo a comporre l’equilibrio e l’armonia in noi stessi. Ed ecco in qual modo. Che ci si debba rinnegare, che si debba anzi morire a noi stessi, è legge sapientissima della redenzione, sancita con l’esempio stesso di Cristo. Ora, rinnegare significa propriamente rifiutare, non accettare, non volere qualcosa; come avviene quando, per esempio, si destano in noi gli istinti non buoni, o si fanno sentire le cattive inclinazioni, le tendenze disordinate, le passioni sregolate e noi non le ascoltiamo, non le seguiamo.Si tenga però presente che ciò che rinneghiamo, che ricusiamo, che non accettiamo, non viene tolto, non viene a cessare in noi. Viene a mancare soltanto la sua attuazione ultima; cioè non lo portiamo al termine a cui di per sé tenderebbe, ma rimane in noi come istinto, come tendenza, come energia repressa. Non tarderà quindi a farsi sentire ancora nell’identico modo, oppure prenderà un nuova forma, ma sempre come qualcosa che freme dentro di noi e vuole raggiungere il suo termine. L’esperienza fondata sull’osservazione della natura umana lo dimostra.Bisogna tenere conto semplicemente e serenamente di questo fatto. Di conseguenza, il rinnegamento di sé non va inteso e attuato soltanto come repressione, come rinunzia: ma deve soprattutto consistere nell’indirizzare verso in fine superiore le proprie energie, per non lasciarle represse dentro di se.Ora, la carità cristiana offre appunto una continua occasione di impegnare nel vero bene ogni nostra energia. Si ami, si ami fortemente,tenacemente, teneramente, con generosità e dedizione, ed allora avverrà che si convoglieranno in questo senso le nostre forze; non rimarranno più inoperose in noi, e quindi si sottrarrà esca agli istinti meno buoni, i quali sono sempre pronti ad assorbire in sè le nostre capacità di bene. Si sa per esperienza che quando qualche grande passione si desta in noi, essa assorbe tutta la nostra attività. Ora, perché non potrebbe essere la carità la nostra grande passione?Non per niente san Paolo, che conosceva profondamente la natura umana, come compenso alla necessità di mortificare le inclinazioni non buone, aggiungeva proprio l’esortazione a praticare la carità più delicata, scrivendo, per esempio, ai Colossesi: “Mortificate quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi … Deponete tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze … Rivestitevi, come amati da Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri” (Col 3,5.8.12-13).

domenica 28 settembre 2008

LA DOMENICA DELLA RESPONSABILITA’ PERSONALE - (di Padre Valter Arrigoni)


Una battuta di Woody Allen dice che il bello del lavorare in equipe è che si può sempre dare la colpa ad un altro. Io aggiungo che quando gli altri sono finiti rimane Dio come colpevole di ogni situazione cattiva che c’è nel mondo e nella mia vita. Sento spesso dire ai miei penitenti o nei colloqui personali, soprattutto con credenti, che la colpa di tutto è nella società. Così va il mondo. Sembra quasi che ci sia sopra di noi e che condiziona pesantemente la nostra vita, le scelte, i comportamenti, la famiglia, i rapporti di lavoro e di amicizia, un ente astratto, senza volto, senza nome. Mozart ha musicato una celebre opera che si intitolava “Così fan tutte”. E’ questo l’incipit, l’inizio delle Parola che Dio ci rivolge questa settimana e sulla quale fermiamo la nostra riflessione. Ci sono conseguenze personali, nella vita di ognuno di noi che deve decidere se seguire le vie di Dio, le abbiamo meditate settimana scorsa, o quelle del mondo. Ci vuole coraggio. Il coraggio di rimanere soli. Eppure come dice un adagio induista: “l’aquila non vola in stormo”. Chi decide di essere eroe (perché chi decide di essere per Dio come Dio vuole è eroe, o come diciamo noi credenti, santo) decide il coraggio della solitudine, dell’incomprensione, della derisione, dell’essere preso per folle. Prima di noi questa sorte è toccata ad Antonio, nell’Egitto del quarto secolo, a Francesco, nella Assisi del medioevo, a Teresa d’Avila ed a Giovanni della Croce nella Spagna del cinquecento. Ogni secolo ha avuto i suoi folli, i suoi santi che sono stati perseguitati anche dalla loro Chiesa e poi santificati. Un crescendo che è giunto fino ai giorni nostri. Anche io, nel mio piccolo, non certo santo, mi sono sentito richiamare alla prudenza. La scelta di essere eremita, ad esempio, è stata definita da alcuni “amici” una follia, una stramberia, l’ennesima stranezza di un’anima inquieta. Eppure vi assicuro che seguire la via di Dio se per il mondo è follia per la persona e per coloro che gli stanno intorno è di una bellezza sconvolgente. L’aggettivo è appropriato perché ti sconvolge la vita. l’esperienza dell’eremo, del silenzio, della solitudine, dell’essenzialità comporta il non avere la corrente elettrica significa niente radio, televisione, computer, congelatore, frigorifero. Tutte cose delle quali pensi di non poter fare a meno ed invece impari, sperimenti, che non sono essenziali. Il ritorno nel modo di vivere del mondo, della città è per me ancora oggi una fatica. Certe volte, in alcuni giorni e momenti vorrei prendere l’auto e tornare al mio bosco, al cinghiale, all’istrice, alla volpe. Il frusciare degli alberi. Andare a dormire con il sole che tramonta e svegliarsi quando l’alba sorge. Ma non erano le cose, l’ambiente, la cornice ma il quadro. Ero io. finalmente dentro di me. Il viaggio, la meta, il paesaggio più bello era dentro di me ed io per più di cinquanta anni non me ne ero accorto. Ho camminato a lato di questa bellezza senza entrarci per paura, per diffidenza vero di me, verso le persone, le situazioni ma soprattutto verso il Signore che mi chiamava per sedurmi (seducere, sedurre, portare dietro di sé. Lui davanti ed io dietro a Lui, in Lui e Lui in me). La prima lettura viene ancora da Ezechiele ed è parola che Dio dice agli ebrei che sono deportati in Babilonia. Danno la colpa a Dio. “Voi dite: non è retto il modo di agire del Signore. Ascolta dunque popolo di Israele: non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra”. Un’altra frase della Bibbia dice “chi semina vento raccoglie tempesta”. Quello che seminiamo, questo raccogliamo. Non ci sono mezzi termini nella parola di Dio che ha anche il compito di cauterizzare le nostre ferite. Da una sorgente inquinata non può scaturire acqua pura, fresca e buona. Ezechiele riporta chiaramente ed inequivocabilmente la Parola, il pensiero di Dio. l’empio che rimane nell’empietà muore a causa di questa. L’empio che si converte e cambia vita vivrà in eterno. Fuor di metafora significa che se le ragioni delle tue decisioni non sono buone, sono gli idoli che “il mondo” impone e tu accetti,allora muori. Vivi da zombie, cammini, respiri, guadagni, hai soddisfazioni e piaceri ma sei morto e spargi morte attorno a te. I tuoi figli litigano e si accoltellano per i tuoi soldi. Frutti infelici e morti di un albero infelice e morto. Ma se cambi radicalmente, in radice, le motivazioni delle tue scelte, se con la vita testimoni la bellezza e la gioia di essere di Cristo, secondo il suo cuore, attuando il suo volere allora sei vivo e semini vita attorno a te. Ma si tratta di essere, di fare, di agire ed operare. Non basta dire. Mi permetto qui una digressione filosofica che ho meditato in questo tempo. In me è chiara e spero di riuscire a scriverla in modo che sia chiara anche per chi legge. La parola aveva una funzione descrittiva. Serviva cioè a dire, a raccontare, a descrivere appunto la realtà. Prima venivano i fatti e poi le parole per dirli. Adesso invece la parola ha assunto un ruolo falso. Un gerarca nazista diceva a Norimberga, durante il processo per i crimini contro l’umanità commessi da lui e dai suo colleghi, che una bugia detta tre volte diventa verità. Siamo in un tempo dominato dalla pubblicità, dall’informazione condizionata dal potente di turno (basta seguire i vari telegiornali, anche locali!) e siamo entrati nella logica che quello che viene detto è vero. Siamo parolai. Non solo i politici che promettono, e parlano e parlano. Tutti. Dovremmo avere il coraggio del silenzio. Di non dire. Di non parlare. Che quello che siamo, che vogliamo, che pensiamo si veda da quello che facciamo e non dalle parole che diciamo. E’ il tema della parabola che ci riporta Matteo nel suo Vangelo. Ci sono due figli ed un padre che ha bisogno che uno di loro vada a lavorare nella vigna. Uno dice che ci andrà e non si muove. L’altro dice che non andrà ma poi ci ripensa e va nella vigna a lavorare. Gesù domanda: “Chi dei due ha compiuto la volontà del Padre?”. Rispondono gli astanti “il secondo”. Non si tratta di dire ma di fare. E questo fare porta la gioia incommensurabile, vera, profonda, intima dell’essere giusti, santi, veri uomini. Le conseguenze pratiche dell’ascolto di queste letture, del confronto con questa Parola di Dio, le sintetizzo in due decisioni: tacere e agire. Per una settimana impegniamoci a non parlare troppo, a non aprire sempre la bocca e lasciare uscire parole, giudizi, commenti, falsità, bugie. Impegniamoci a non dire neppure quello che può fare bene se non siamo disposti a farlo nelle azioni. L’altra parola che deve segnare, colorare, almeno questa settimana è “agire”. Chiediamoci cosa dice di noi quello che facciamo. Le azioni, le scelte, i gesti. Nel presente e nel passato. Come un esame di coscienza. Rileggo i miei gesti e mi chiedo:”chi sono veramente?”.
San Giacomo scrive nella sua lettera: “sia ognuno pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all’ira. Perché l’ira dell’uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio. perché se uno ascolta soltanto e non mette in pratica la parola, somiglia ad un uomo che osserva il proprio volto in uno specchio: appena si è osservato, se ne va, e subito dimentica come era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla … uno potrebbe dire tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede”

Padre Valter Arrigoni

Liturgia della XXVI Domenica del Tempo Ordinario - Anno A

Prima Lettura Ez 18, 25-28
Se il malvagio si converte dalla sua malvagità, egli fa vivere se stesso.

Dal libro del profeta Ezechiele
Così dice il Signore: «Voi dite: “Non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra? Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso. E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 23
Ricòrdati, Signore, della tua misericordia.

Fammi conoscere, Signore, le tue vie,
insegnami i tuoi sentieri.
Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi,
perché sei tu il Dio della mia salvezza;
io spero in te tutto il giorno.

Ricòrdati, Signore, della tua misericordia
e del tuo amore, che è da sempre.
I peccati della mia giovinezza
e le mie ribellioni, non li ricordare:
ricòrdati di me nella tua misericordia,
per la tua bontà, Signore.

Buono e retto è il Signore,
indica ai peccatori la via giusta;
guida i poveri secondo giustizia,
insegna ai poveri la sua via.

Seconda Lettura Fil 2, 1-11 (Forma breve Fil 2, 1-5)
Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi
[ Fratelli, se c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi. Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri.Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù ]:
egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
Canto al Vangelo Gv 10,27
Alleluia, alleluia.
Le mie pecore ascoltano la mia voce, dice il Signore,io le conosco ed esse mi seguono.
Alleluia.
Vangelo Mt 21, 28-32
Pentitosi, andò. I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, disse Gesù ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, và oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Dicono: «L'ultimo». E Gesù disse loro: «In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. E` venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli».

sabato 27 settembre 2008

ASCOLTA - (di Padre Valter Arrigoni)


Torno dall’eremo sinceramente contro voglia. Sono stato per oltre due mesi nel cuore della vita, nel cuore stesso di Dio. Ho toccato la vera umanità. La gioia di essere uomo. La pienezza dell’essere. L’essenziale. Senza tutte quelle aggiunte che noi chiamiamo società, mondo, benessere, necessità, bisogni. Cose senza le quali mi sembrava di non poter vivere. Cose alle quali ho sacrificato il tempo della vita. Le forze. Le energie. La salute. La pace interiore. La felicità. Le notti. I giorni. Le ore.
Gli ultimi giorni sono stato nell’eremo della fornace dove don Divo Barsotti ha iniziato la sua esperienza e la sua fraternità dei “Figli di Dio”.
Ancora più essenziale, radicale nel senso che è arrivato alla radice dell’essere. Senza corrente elettrica (la televisione è già da tempo che non so cosa è ma niente frigo, congelatore, computer, lampadine ma solo candele di cera e una torcia a pile per le emergenze). Senza acqua ma solo taniche che mio fratello mi ha aiutato a portare fin quassù dove non arriva neppure la strada. Eppure ho toccato con mano, ho vissuto, ho fatto esperienza della felicità. La vera felicità che non è un piacere ma la gioia. Non dura quanto un orgasmo o quanto l’effimera contentezza che provi quando ti vengono in tasca un po’ di soldi, oppure hai una gratificazione sul lavoro. La gioia che è pace. Stare bene con se stessi, sapere che Lui non ti tradisce, non ti abbandona,non ti delude. Sì perché la solitudine ed il silenzio hanno senso solo se sono tempo di ascolto di Dio. Tempo di esperienza di Lui. Hanno senso solo se sono un entrare nel cuore dell’umanità, della vita, di tutti con il cuore di Dio. Con la sua compassione.
Alcuni pensano che la mia vita da eremita sia stata una vacanza riposante. Una vacanza alternativa. Pensano che io abbia trovato una specie di clinica del riposo. Sono le categorie mentali che ormai hanno preso spazio nella nostra mente anche di credenti. Sono diventate di moda le vacanze nei conventi, i soggiorni di riposo dalla vita quotidiana nei monasteri. Eppure la vera pace non è il luogo ma il cuore. Il luogo bello ti aiuta ma ciò che vivi deve arrivare a toccare in radice il cuore.
Prima di tutto c’è un ascolto. Del “silentium Dei”, della natura, della tua vita, degli altri, della Parola di Dio, delle parole degli uomini. Prima di tutto c’è il silenzio. Pensavo che fosse la cassa di risonanza di tutte le parole, le esperienze, i sentimenti, le passioni, gli odi, i risentimenti, i dolori, le rabbie vissute. Invece il silenzio è come il roveto ardente dove abita Dio e nel quale tutto il negativo passato viene gettato e brucia, si consuma, arde. Tutto in Dio diventa buono. Tutto e tutti in questo tempo hanno svelato la ragione buona per la quale Dio ha permesso che accadessero gli avvenimenti che sono accaduti, che io incontrassi le persone che ho incontrato, che queste persone siano come sono a facciano o abbiano fatto ciò che fanno o hanno fatto. Dice, morendo solo e ammalato, il protagonista del romanzo “Diario di un curato di campagna” di Georges Bernanos: “Che importa,tutto è grazia”.
Tutto è grazia cioè tutto viene da Dio che sa scrivere dritto anche sulle righe storte della nostra vita come diceva Giovanni Paolo II.
San Francesco di Assisi amava ritirarsi nelle grotte, nelle fenditure della roccia perché gli sembrava di rintanarsi, di accucciarsi, di riposare nel costato aperto di Cristo. E’ l’esperienza di questo tempo. Sono stato a riposare nel cuore di Dio. E faccio davvero fatica a ritornare.
Già sento le domande che mi verranno fatte. Tutte superficiali ed inutili. “Cosa mangiavi? Come era il tuo orario? Non avevi paura degli animali del bosco (vipere, cinghiali, volpi, faine …)? Non hai mai sentito la voglia di tornare? Ti mancava la televisione?” Tutte domande mosse dall’affetto, mosse dal modo di vivere, di giudicare, di vedere secondo quello che vive, vede e giudica il mondo ed il mondo che è entrato ed ha preso possesso del nostro cuore. Si può vivere,anzi si vive la vera vita, si è veramente umani senza ciò che adesso ci sembra indispensabile. La maggior parte dell’umanità vive così. Miliardi di uomini deve vivere così. Io l’ho vissuto per libera scelta. Qui sta la grande differenza fra me ed i poveri del mondo. La libertà della scelta.
Ma adesso devo tornare, lo ripeto, contro voglia, ma è un dovere.
Nella prima lettura della domenica prossima (finalmente comincio a commentare le letture che ascolterete e non quelle che avete già sentito) Dio dice al profeta Ezechiele “Figlio dell’uomo, io ti ho costituito sentinella per gli Israeliti; ascolterai una parola dalla mia bocca e tu li avvertirai da parte mia.”
Il profeta Ezechiele scrive mentre il popolo di Israele si trova esule in Babilonia, schiavo, deportato, maltrattato. La sua attenzione, nel suo libro, è spesso sui pastori, i sacerdoti, le autorità religiose di Israele. Questo perché Dio fa sapere che tutto il male che è capitato al suo popolo non lo ha voluto Lui ma è la conseguenza del cattivo comportamento di pastori che invece di curare le pecore le divoravano. Non dicevano la Parola di Dio per paura di perdere i privilegi e di non trovare la simpatia del popolo. Popolo che preferiva la menzogna, l’illusione che tutto andasse bene, che Dio non guardava al male e che il male non avrebbe avuto conseguenze, preferivano questa menzogna alla verità cauterizzante ma risanante. L’alcool su una ferita brucia ma la pulisce.
Il profeta autentico,quello che viene da Dio prima Lo ascolta e poi riferisce al popolo, agli uomini, a noi, a me, ciò che Dio gli ha detto. Sta a me, nella mia libertà, ascoltare, attuare, cambiare, correggere il mio agire, il mio operare. Anche se questo mi costa dolore, fatica, sforzo, paziente lavoro. Se cambio le conseguenze saranno buone. Il fiume della grazia di Dio riprenderà a scorrere ma se non cambio allora continuerà ad esserci nella mia vita l’acqua stagnante, paludosa, mortifera del male.
Compito dell’uomo di Dio è fare l’esperienza di Dio, ritirarsi con lui nella solitudine e nel silenzio. Vivere solo di Lui e con Lui. Poi andare con la faccia di bronzo, forte e sicuro solo di Lui, fra gli altri uomini e dire ciò che Dio gli ha detto. Senza paura. Senza dipendere dal consenso, dalla chiesa piena di una massa adorante, ma essere felice di una chiesa vuota o con poche persone convinte che a loro volta cambieranno il pezzo di mondo che loro spetta. E così cambierà tutto il mondo. Tornerà ad essere il paradiso che Dio ha voluto per tutti gli uomini.
Nel Vangelo Gesù ribadisce il dovere della correzione fraterna. Il dovere dell’uomo di Dio di correggere il fratello non secondo un proprio modo di vedere o di sentire ma secondo la Parola di Dio. Si passa dal richiamo a tu per tu, fino alla convocazione dell’assemblea per finire con la scomunica (togliere dalla comunità). Secondo la Parola ascoltata che diventa parte del mio essere e pensare. La correzione del fratello è motivata dal desiderio che lui sia felice, vivo, sano, in pace e non dal mio sentirmi migliore, giudice santo e perfetto.
Questo brano di Vangelo finisce con una bellissima promessa: “Se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”.
La Messa è il luogo della concordia, dell’accordarsi, del non pensare solo a se stessi ma dove uno ha l’altro nel cuore,ed i suoi desideri. Non è il luogo dove casualmente ci si trova ognuno per i fatti propri, i propri pensieri, le proprie preghiere ma dove un pezzo di umanità converge per ricreare l’unità. E Gesù ribadisce “dove due o tre”, pochi, non una massa, una folla, ma pochi che credono. Ricominciamo da tre come ci insegnava anche Massimo Troisi. Ricominciamo da pochi e non temiamo se siamo pochi. Il Signore è con noi, in mezzo a noi, dentro di noi.

Padre Valter Arrigoni

27 settembre - San Vincenzo De' Paoli



Nato a Pouy in Guascogna il 24 aprile 1581, fino a quindici anni fece il guardiano di porci per poter pagarsi gli studi. Ordinato sacerdote a 19 anni, nel 1605 mentre viaggiava da Marsiglia a Narbona fu fatto prigioniero dai pirati turchi e venduto come schiavo a Tunisi. Venne liberato dal suo stesso «padrone», che convertì. Da questa esperienza nacque in lui il desiderio di recare sollievo materiale e spirituale ai galeotti. Nel 1612 diventò parroco nei pressi di Parigi. Alla sua scuola si formarono sacerdoti, religiosi e laici che furono gli animatori della Chiesa di Francia, e la sua voce si rese interprete dei diritti degli umili presso i potenti. Promosse una forma semplice e popolare di evangelizzazione. Fondò i Preti della Missione (Lazzaristi) e insieme a santa Luisa de Marillac, le Figlie della Carità (1633). Diceva ai sacerdoti di S. Lazzaro: «Amiamo Dio, fratelli miei, ma amiamolo a nostre spese, con la fatica delle nostre braccia, col sudore del nostro volto». Per lui la regina di Francia inventò il Ministero della Carità. E da insolito «ministro» organizzò gli aiuti ai poveri su scala nazionale. Morì a Parigi il 27 settembre 1660 e fu canonizzato nel 1737. (Avvenire)


Patronato: Società caritatevoli

Etimologia: Vincenzo = vittorioso, dal latino

Martirologio Romano: Memoria di san Vincenzo de’ Paoli, sacerdote, che, pieno di spirito sacerdotale, a Parigi si dedicò alla cura dei poveri, riconoscendo nel volto di ogni sofferente quello del suo Signore e fondò la Congregazione della Missione, nonché, con la collaborazione di santa Luisa de Marillac, la Congregazione delle Figlie della Carità, per provvedere al ripristino dello stile di vita proprio della Chiesa delle origini, per formare santamente il clero e per assistere i poveri.

Nella storia della cristianità, fra le innumerevoli schiere di martiri e santi, spiccano in ogni periodo storico delle figure particolari, che nel proprio campo di apostolato, sono diventate dei colossi, su cui si fonda e si perpetua la struttura evangelica, caritatevole, sociale, mistica, educativa, missionaria, della Chiesa.

E fra questi suscitatori di Opere, fondatori e fondatrici di Congregazioni religiose, pastori zelanti di ogni grado, ecc., si annovera la luminosa figura di san Vincenzo de’ Paoli, che fra i suoi connazionali francesi era chiamato “Monsieur Vincent”.


Gli anni giovanili

Vincenzo Depaul, in italiano De’ Paoli, nacque il 24 aprile del 1581 a Pouy in Guascogna (oggi Saint-Vincent-de-Paul); benché dotato di acuta intelligenza, fino ai 15 anni non fece altro che lavorare nei campi e badare ai porci, per aiutare la modestissima famiglia contadina.

Nel 1595 lasciò Pouy per andare a studiare nel collegio francescano di Dax, sostenuto finanziariamente da un avvocato della regione, che colpito dal suo acume, convinse i genitori a lasciarlo studiare; che allora equivaleva avviarsi alla carriera ecclesiastica.

Dopo un breve tempo in collegio, visto l’ottimo risultato negli studi, il suo mecenate, giudice e avvocato de Comet senior, lo accolse in casa sua affidandogli l’educazione dei figli.

Vincenzo ricevette la tonsura e gli Ordini minori il 20 dicembre 1596, poi con l’aiuto del suo patrono, poté iscriversi all’Università di Tolosa per i corsi di teologia; il 23 settembre 1600 a soli 19 anni, riuscì a farsi ordinare sacerdote dall’anziano vescovo di Périgueux (in Francia non erano ancora attive le disposizioni in materia del Concilio di Trento), poi continuò gli studi di teologia a Tolosa, laureandosi nell’ottobre 1604.

Sperò inutilmente di ottenere una rendita come parroco, nel frattempo perse il padre e la famiglia finì ancora di più in ristrettezze economiche; per aiutarla Vincent aprì una scuola privata senza grande successo, anzi si ritrovò carico di debiti.

Fu di questo periodo la strabiliante e controversa avventura che gli capitò; verso la fine di luglio 1605, mentre viaggiava per mare da Marsiglia a Narbona, la nave fu attaccata da pirati turchi ed i passeggeri, compreso Vincenzo de’ Paoli, furono fatti prigionieri e venduti a Tunisi come schiavi.

Vincenzo fu venduto successivamente a tre diversi padroni, dei quali l’ultimo, era un frate rinnegato che per amore del denaro si era fatto musulmano.

La schiavitù durò due anni, finché riacquistò la libertà fuggendo su una barca insieme al suo ultimo padrone da lui convertito; attraversando avventurosamente il Mediterraneo, giunsero il 28 giugno 1607 ad Aigues-Mortes in Provenza.

Ad Avignone il rinnegato si riconciliò con la Chiesa, nelle mani del vicedelegato pontificio Pietro Montorio, il quale ritornando a Roma, condusse con sé i due uomini.

Vincenzo rimase a Roma per un intero anno, poi ritornò a Parigi a cercare una sistemazione; certamente negli anni giovanili Vincenzo de’ Paoli non fu uno stinco di santo, tanto che alcuni studiosi affermano, che i due anni di schiavitù da lui narrati, in realtà servirono a nascondere una sua fuga dai debitori, per la sua fallimentare conduzione della scuola e pensionato privati.

Riuscì a farsi assumere tra i cappellani di corte, ma con uno stipendio di fame, che a stento gli permetteva di sopravvivere, senza poter aiutare la sua mamma rimasta vedova.


Parroco e precettore

Finalmente nel 1612 fu nominato parroco di Clichy, alla periferia di Parigi; in questo periodo della sua vita, avvenne l’incontro decisivo con Pierre de Bérulle, che accogliendolo nel suo Oratorio, lo formò a una profonda spiritualità; nel contempo, colpito dalla vita di preghiera di alcuni parrocchiani, padre Vincenzo ormai di 31 anni, lasciò da parte le preoccupazioni materiali e di carriera e prese ad insegnare il catechismo, visitare gli infermi ed aiutare i poveri.

Lo stesso de Brulle, gli consigliò di accettare l’incarico di precettore del primogenito di Filippo Emanuele Gondi, governatore generale delle galere.

Nei quattro anni di permanenza nel castello dei signori Gondi, Vincenzo poté constatare le condizioni di vita che caratterizzavano le due componenti della società francese dell’epoca, i ricchi ed i poveri. I ricchi a cui non mancava niente, erano altresì speranzosi di godere nell’altra vita dei beni celesti, ed i poveri che dopo una vita stentata e disgraziata, credevano di trovare la porta del cielo chiusa, a causa della loro ignoranza e dei vizi in cui la miseria li condannava.

Anche la signora Gondi condivideva le preoccupazioni del suo cappellano, pertanto mise a disposizione una somma di denaro, per quei religiosi che avessero voluto predicare una missione ogni cinque anni, alla massa di contadini delle sue terre; ma nessuna Congregazione si presentò e il cappellano de’ Paoli, intimorito da un compito così grande per un solo prete, abbandonò il castello senza avvisare nessuno.


Gli inizi delle sue fondazioni – Le “Serve dei poveri”

Le fondazioni di Vincenzo de’ Paoli, non scaturirono mai da piani prestabiliti o da considerazioni, ma bensì da necessità contingenti, in un clima di perfetta aderenza alla realtà.

Lasciato momentaneamente il castello della famiglia Gondi, Vincenzo fu invitato dagli oratoriani di de Bérulle, ad esercitare il suo ministero in una parrocchia di campagna a Chatillon-le-Dombez; il contatto con la realtà povera dei contadini, che specie se ammalati erano lasciati nell’abbandono e nella miseria, scosse il nuovo parroco.

Dopo appena un mese dal suo arrivo, fu informato che un’intera famiglia del vicinato, era ammalata e senza un minimo di assistenza, allora lui fece un appello ai parrocchiani che si attivassero per aiutarli, appello che fu accolto subito e ampiamente.

Allora don Vincenzo fece questa considerazione: “Oggi questi poveretti avranno più del necessario, tra qualche giorno essi saranno di nuovo nel bisogno!”. Da ciò scaturì l’idea di una confraternita di pie persone, impegnate a turno ad assistere tutti gli ammalati bisognosi della parrocchia; così il 20 agosto 1617 nasceva la prima ‘Carità’, le cui associate presero il nome di “Serve dei poveri”; in tre mesi l’Istituzione ebbe un suo regolamento approvato dal vescovo di Lione.

La Carità organizzata, si basava sul concetto che tutto deve partire da quell’amore, che in ogni povero fa vedere la viva presenza di Gesù e dall’organizzazione, perché i cristiani sono tali solo se si muovono coscienti di essere un sol corpo, come già avvenne nella prima comunità di Gerusalemme.

La signora Gondi riuscì a convincerlo a tornare nelle sue terre e così dopo la parentesi di sei mesi come parroco a Chatillon-les-Dombes, Vincenzo tornò, non più come precettore, ma come cappellano della massa di contadini, circa 8.000, delle numerose terre dei Gondi.

Prese così a predicare le Missioni nelle zone rurali, fondando le ‘Carità’ nei numerosi villaggi; s. Vincenzo avrebbe voluto che anche gli uomini, collaborassero insieme alle donne nelle ‘Carità’, ma la cosa non funzionò per la mentalità dell’epoca, quindi in seguito si occupò solo di ‘Carità’ femminili.

Quelle maschili verranno riprese un paio di secoli dopo, nel 1833, da Emanuele Bailly a Parigi, con un gruppo di sette giovani universitari, tra cui la vera anima fu il beato Federico Ozanam (1813-1853); esse presero il nome di “Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli”.

Intanto nel 1623 Vincenzo de’ Paoli, si laureò in diritto canonico a Parigi e restò con i Gondi fino al 1625.


Le “Dame della Carità”

Vincenzo de’ Paoli, vivendo a Parigi si rese conto che la povertà era presente, in forma ancora più dolorosa, anche nelle città e quindi fondò anche a Parigi le ‘Carità’; qui nel 1629 le “Suore dei poveri” presero il nome di “Dame della Carità”.

Nell’associazione confluirono anche le nobildonne, che poterono dare un valore aggiunto alla loro vita spesso piena di vanità; ciò permise alla nobiltà parigina di contribuire economicamente alle iniziative fondate da “monsieur Vincent”.

L’istituzione cittadina più importante fu quella detta dell’”Hotel Dieu” (Ospedale), che s. Vincenzo organizzò nel 1634, essa fu il più concreto aiuto al santo nelle molteplici attività caritative, che man mano lo vedevano impegnato; trovatelli, galeotti, schiavi, popolazioni affamate per la guerra e nelle Missioni rurali.

Fra le centinaia di associate a questa meravigliosa ‘Carità’, vi furono la futura regina di Polonia Luisa Maria Gonzaga e la duchessa d’Auguillon, nipote del Primo Ministro, cardinale Richelieu.

Le prime ‘Carità’ vincenziane sorsero in Italia a Roma (1652), Genova (1654), Torino (1656).


I “Preti della Missione” o “Lazzaristi”

Anche in questa fondazione ci fu l’intervento munifico dei signori Gondi; la sua origine si fa risalire alla fortunata predicazione che il fondatore tenne a Folleville il 25 gennaio 1617; le sue parole furono tanto efficaci che non bastarono i confessori.

Il bene ottenuto in quel villaggio, indusse la signora Gondi ad offrire una somma di denaro a quella comunità che si fosse impegnata a predicare periodicamente ai contadini; come già detto non si presentò nessuno, per cui dopo il suo ritorno a Parigi, Vincenzo de’ Paoli prese su di sé l’impegno, aggregandosi con alcuni zelanti sacerdoti e cominciò dal 1618 a predicare nei villaggi.

Il risultato fu ottimo, ed altri sacerdoti si unirono a lui, i signori Gondi aumentarono il finanziamento e anche l’arcivescovo di Parigi diede il suo appoggio, assegnando a Vincenzo ed ai suoi missionari rurali, una casa nell’antico Collegio dei Bons-Enfants in via S. Vittore; il contratto fra Vincenzo de’ Paoli ed i signori Gondi porta la data del 17 aprile 1625.

La nuova comunità, si legge nel contratto, doveva fare vita comune, rinunziare alle cariche ecclesiastiche, e predicare nei villaggi di campagna; inoltre occuparsi dell’assistenza spirituale dei forzati e insegnare il catechismo nelle parrocchie nei mesi estivi.

La “Congregazione della Missione” come si chiamò, fu approvata il 24 aprile 1626 dall’arcivescovo di Parigi, dal re di Francia nel maggio 1627 e da papa Urbano VIII il 12 gennaio 1632.

Intanto i missionari si erano spostati nel priorato di San Lazzaro, da cui prenderanno anche il nome di “Lazzaristi”.

In seguito Vincenzo accettò che i suoi Preti della Missione o Lazzaristi, riuniti in una Congregazione senza voti, si dedicassero alla formazione dei sacerdoti, con Esercizi Spirituali, dirigendo Seminari e impegnandosi nelle Missioni all’estero come in Madagascar, nell’assistenza agli schiavi d’Africa.

Quando morì nel 1660, la sola Casa di San Lazzaro, aveva già dato 840 missioni e un migliaio di persone si erano avvicendate in essa, per turni di Esercizi Spirituali.


Le “Figlie della Carità”

La feconda predicazione nei villaggi, suscitò la vocazione all’apostolato attivo, prima nelle numerose ragazze delle campagne poi in quelle della città; desiderose di lavorare nelle ‘Carità’ a servizio dei bisognosi, ma anche consacrandosi totalmente.

Vincenzo de’ Paoli intuì la grande opportunità di estendere la sua opera assistenziale, lì dove le “Dame della Carità” per la loro posizione sociale, non potevano arrivare personalmente.

Affidò il primo gruppo per la loro formazione, ad una donna eccezionale s. Luisa de Marillac (1591-1660) vedova Le Gras, era il 29 novembre 1633; Luisa de Marillac le accolse in casa sua e nel luglio dell’anno successivo le postulanti erano già dodici.

La nuova Congregazione prese il nome di “Figlie della Carità”; i voti erano permessi ma solo privati ed annuali, perché tutte svolgessero la loro missione nella più piena libertà e per puro amore; l’approvazione fu data nel 1646 dall’arcivescovo di Parigi e nel 1668 dalla Santa Sede.

Nel 1660, anno della morte del fondatore e della stessa cofondatrice, le “Figlie della Carità” avevano già una cinquantina di Case.

Con il loro caratteristico copricapo, che le faceva assomigliare a degli angeli, e a cui le suore hanno dovuto rinunciare nel 1964 per un velo più pratico, esse allargarono la loro benefica attività d’assistenza ai malati negli ospedali, ai trovatelli, agli orfani, ai forzati, ai vecchi, ai feriti di guerra, agli invalidi e ad ogni sorta di miseria umana.

Ancora oggi le Figlie della Carità, costituiscono la Famiglia religiosa femminile più numerosa della Chiesa.


La formazione del clero

Attraverso l’Opera degli Esercizi Spirituali, i Preti della Missione divennero di fatto, i più prestigiosi e qualificati formatori dei futuri sacerdoti, al punto che l’arcivescovo di Parigi dispose che i nuovi ordinandi, trascorressero quindici giorni di preparazione nelle Case dei Lazzaristi, in particolare nel Collegio dei Bons-Enfants di cui Vincenzo de’ Paoli era superiore.

Più tardi, nel priorato di San Lazzaro, l’Opera degli Esercizi Spirituali si estese a tutti gli ecclesiastici che avessero voluto fare un ritiro annuale e anche a folti gruppi di laici.

Da ciò scaturì nei sacerdoti il desiderio di riunirsi settimanalmente, per esortarsi a vicenda nel cammino di una santa vita sacerdotale; così a partire dal 1633, un folto gruppo di ecclesiastici, con la guida di Vincenzo de’ Paoli, prese a riunirsi il martedì, dando vita appunto alle “Conferenze del martedì”.

Tale meritoria opera di formazione non sfuggì al potente cardinale Richelieu, il quale volle essere informato sulla loro attività e chiese pure al fondatore, una lista di nomi degni di essere elevati all’episcopato.

Lo stesso re Luigi XIII, chiese a ‘monsieur Vincent’, una seconda lista di degni ecclesiastici adatti a reggere diocesi francesi; il sovrano poi lo volle accanto al suo letto di morte, per ricevere gli ultimi conforti spirituali.

Anche la direzione dei costituendi Seminari delle diocesi francesi, voluti dal Concilio di Trento, vide sempre nel 1660, ben dodici rettori appartenenti ai Preti della Missione


Alla corte di Francia

Nel 1643, Vincenzo de’ Paoli fu chiamato a far parte del Consiglio della Coscienza o Congregazione degli Affari Ecclesiastici, dalla reggente Anna d’Austria; presieduto dal card. Giulio Mazzarino, il compito del Consiglio era la scelta dei vescovi ed il rilascio di benefici ecclesiastici. Il potente Primo Ministro faceva scelte di opportunità politica, soprassedendo sulle qualità morali e religiose; era inevitabile lo scontro fra i due, Vincenzo gli si oppose apertamente, anche criticandolo nelle sue scelte di politica interna, specie nei giorni oscuri della Fronda, quando Mazzarino tentò di mettere alla fame Parigi in rivolta, Vincenzo allora organizzò una mensa popolare a San Lazzaro, dando da mangiare a 2000 affamati al giorno.

Nel 1649 giunse a chiedere alla regina, l’allontanamento del Mazzarino per il bene della Francia; la richiesta non poté aver seguito e quindi Vincenzo de’ Paoli cadde in disgrazia e definitivamente allontanato dal Consiglio di Coscienza nel 1652.

La reggente Anna d’Austria gli concesse l’incarico di Ministro della Carità, per organizzare su scala nazionale gli aiuti ai poveri; si disse che dalle sue mani passasse più denaro che in quelle del ministro delle Finanze.


Altri aspetti della sua opera

Vincenzo de’ Paoli divenne il maggiore oppositore alle idee gianseniste propugnate in Francia dal suo amico Giovanni du Vergier, detto San Cirano († 1642) e poi da Antonio Arnauld; dopo la condanna del giansenismo da parte dei papi Innocenzo X nel 1653 e Alessandro VIII nel 1656, Vincenzo si adoperò, affinché la decisione pontificia fosse accettata con sottomissione da tutti gli aderenti alle idee del vescovo olandese Giansenio (1585-1638).

Il movimento eterodosso del giansenismo affermava, che per la salvezza dell’uomo, a causa della profonda corruzione scaturita dal peccato originale, occorreva l’assoluta necessità della Grazia, la quale sarebbe stata concessa solo ad alcuni, per imperscrutabile disegno di Dio.

Fu riformatore della predicazione, fino allora barocca, introducendo una semplice tecnica oratoria: della virtù scelta per argomento, ricercare la natura, i motivi di praticarla, ed i mezzi più opportuni.

Per lui apostolo della carità fra i prigionieri ed i forzati, re Luigi XIII, su suggerimento di Filippo Emanuele Gondi, istituì la carica di Cappellano capo delle galere (8 febbraio 1619), questo gli facilitò il compito e l’accesso nei luoghi di pena e di partenza dei galeotti rematori; dal 1640 il compito passò anche ai suoi Missionari e alle Dame e Figlie della Carità.

Inoltre si calcola che tra il 1645 e il 1661, Vincenzo de’ Paoli e i suoi Missionari, liberarono non meno di 1200 schiavi cristiani in mano ai Turchi musulmani.

Monsieur Vincent fu fin dai primi anni, membro attivo della potente “Compagnia del SS. Sacramento”, sorta a Parigi nel 1630, composta da ecclesiastici e laici insigni e dedita ad “ogni forma di bene”.

Vincenzo de’ Paoli fu spesso ispiratore della benefica attività della Compagnia e da essa ricevé aiuto e collaborazione, per le sue tante opere assistenziali.


Il pensiero spirituale

Nei dodici capitoli delle “Regulae”, Vincenzo ha condensato lo spirito che deve distinguere i suoi figli come religiosi: la spiritualità contemplativa del pensiero del card. de Bérulle, sotto la cui direzione egli rimase per oltre un decennio; l’umanesimo devoto di s. Francesco di Sales, suo grande amico, del quale lesse più volte le opere spirituali e l’ascetismo di s. Ignazio di Lodola, del quale assimilò il temperamento pratico; elaborando da queste tre fonti una nuova dottrina spirituale. Le virtù caratteristiche dello spirito vincenziano, secondo la Regola dei Missionari, sono le “cinque pietre di Davide”, cioè la semplicità, l’umiltà, la mansuetudine, la mortificazione e lo zelo per la salvezza delle anime.


La morte, patronati

Il grande apostolo della Carità, si spense a Parigi la mattina del 27 settembre 1660 a 79 anni; ai suoi funerali partecipò una folla immensa di tutti i ceti sociali; fu proclamato Beato da papa Benedetto XIII il 13 agosto 1729 e canonizzato da Clemente XII il 16 giugno 1737.

I suoi resti mortali, rivestiti dai paramenti sacerdotali, sono venerati nella Cappella della Casa Madre dei Vincenziani a Parigi.

È patrono del Madagascar, dei bambini abbandonati, degli orfani, degli infermieri, degli schiavi, dei forzati, dei prigionieri. Leone XIII il 12 maggio 1885 lo proclamò patrono delle Associazioni cattoliche di carità.

In San Pietro in Vaticano, una gigantesca statua, opera dello scultore Pietro Bracci, è collocata nella basilica dal 1754, rappresentante il “padre dei poveri”.La sua celebrazione liturgica è il 27 settembre.


venerdì 19 settembre 2008

Lettera d'Amore di Dio ai Fidanzati



Domenica scorsa ho partecipato, insieme alla mia fidanzata Orietta, ad un matrimonio presso la Parrocchia dei SS. Faustino e Giovita a Torbiato (Brescia).
Si sono sposati due cari amici Alessia ed Alessandro ai quali vanno i più cari auguri di una vita lunga e serena, accompagnati dalla benedizione del Signore.
Una delle cose che mi ha maggiormente colpito è stata la "lettera d'amore di Dio ai fidanzati" che Alessia ed Alessandro hanno inserito nel loro libretto della Messa. E' un'ipotetico punto di vista "dall'alto" che ci fa osservare l'altro con gli occhi di Dio... Ve la voglio regalare così, nella semplicità, come Alessia ed Alessandro la hanno regalata a tutti noi.

Gian Luca


LETTERA D'AMORE DI DIO AI FIDANZATI

Dice Dio:

"La creatura che hai al fianco è Mia: Io l'ho creata. Io le ho voluto bene da sempre. Per lei non ho esitato a dare la Mia vita. Ho dei grandi progetti per lei. La prenderai dalle mie mani e ne diventerai responsabile. Quando hai incontrato questa Mia creatura l'hai trovata bella e te ne sei innamorato. Sono le Mie mani che hanno plasmato la sua bellezza, è il Mio cuore che che ha messo dentro di lei la tenerezza e l'amore, è la Mia sapienza che ha formato la sua sensibilità e la sua intelligenza e tutte le qualità belle che hai trovato in lei. Però non basta che tu goda del suo fascino. Dovrai impegnarti a rispondere ai suoi bisogni, ai suoi desideri. Dobbiamo fare un patto fra noi: la ameremo insieme. Io l'amo da sempre. Sono Io la sorgente dell'amore. Sono Io che ho messo nel tuo cuore l'amore per lei. E' stato il modo più bello perché ti accorgessi di lei. Dobbiamo metterci d'accordo: non è possibile che l'ami in un modo ed Io in un altro. Devi avere per lei un amore simile al Mio. Facendo riferimento continuo a Me scoprirai quale sia il Mio modo di amare e ti svelerò quale vita ho voluto e sognato per questa creatura che diventerà tua sposa, che diventerà tuo sposo. Se vi amerete in questo modo, la vostra coppia diventerà come una fortezza che le tempeste della vita non riusciranno mai ad abbattere. Un amore costruito sulla Mia parola è come una casa costruita sulla roccia. Di più: se vi amerete in questo modo diventerete forza anche per gli altri. Sarete speranza per tutti, perché tutti vedranno che l'amore è una cosa possibile".



giovedì 18 settembre 2008

18 - L'invocazione dello Spirito Santo per amare - "La sapienza del cuore" (di Padre Fabrizio CARLI)



Potrebbe sembrare che si esiga troppo dall’uomo col ricordargli che è tenuto a tutte queste delicatezze di carità verso il prossimo. Ma abbiamo visto che nella nuova legge dell’amore, ad amare non è solo l’uomo: è Dio stesso Amore che ama in lui, perché, “l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5).E allora, per amare come esige il vero amore, l’uomo deve invocare l’Amore infinito, e cioè lo Spirito Santo che è amore infinitamente amante e infinitamente amato. Si noti che comunemente non si dice pregare lo Spirito Santo, ma invocare. Invocare è come chiamare intensamente con la voce: con la voce del cuore, che è quella dell’amore che sola può chiamare l’amore.La rivelazione, la teologia - e l’intimo senso della pietà dei fedeli – parlano dei doni dello Spirito Santo, e cioè dei suoi diversi modi di operare nell’anima. Esso infatti può particolarmente illuminare l’intelligenza e accendere il cuore con quella luce di carità in cui consiste la sapienza, che è proprio il primo dono che gli si attribuisce. Così lo Spirito Santo può affinale l’intelligenza, perché penetri sempre più nella verità, ed è questo il dono dell’intelletto; può arricchire l’anima perché sappia dire nel modo più efficace quanto giova la bene altrui, ed è il dono del consiglio.È sempre lo stesso Amore infinito che opera nell’anima, ma Esso ama produrvi effetti diversi, che sono appunto quelli che noi chiamiamo i suoi doni, perché l’amore è sempre nuovo e creativo, e vuole che anche l’uomo amando possa amare in tutti i modi che l’amore richiede.E così lo Spirito Santo gli dona la sapienza, l’intelletto e il consiglio che permettono appunto all’uomo di farsi accanto al prossimo in ogni suo bisogno, con tutta la finezza e la ricchezza dell’amore. Non sono doni separati, distinti l’uno dall’altro: come abbiamo detto, è lo stesso Amore che dà all’uomo tutta la pienezza dell’amore, cioè la capacità di esprimerlo volta per volta nel modo più adeguato alla persona che si ama. È piuttosto l’uomo che sente la necessità, a seconda delle diverse situazioni o condizioni, di invocare dallo Spirito Santo la sapienza o l’intelligenza, o il dono del consiglio, perché il suo amore possa rispondere al bisogno particolare in cui il prossimo si trova. L’uomo non può arrivare da se stesso ad amare come l’amore esige, e quindi ha bisogno di essere rafforzato dall’Amore infinito, e per questo appunto lo invoca, invoca cioè lo Spirito Santo. Ed invocare l’Amore significa credere nell’amore, volere l’amore, aprire il cuore all’amore; significa già con questo, crescere nell’amore, farsi più capaci di amare. E l’Amore invocatosi effonde sempre nel cuore di chi lo invoca, per cui esso saprà vivere tutte le delicatezze dell’amore, nella benevolenza che porta a non giudicare, a non pensare male, a non parlare male; che porta all’indulgenza e alla discrezione, in una parola al dono continuo e totale di sé che non è soltanto dono del cuore umano ma è l’Amore stesso di Dio che si effonde dal cuore dell’uomo. In questo contesto ci limitiamo a quei doni che maggiormente e in modo più diretto illuminano e accendono la nostra carità; ma anche gli altri doni dello Spirito Santo, e cioè la fortezza, la scienza, la pietà e il timor di Dio danno vigore e calore all’anima nel cammino verso Dio ogni giorno.

mercoledì 17 settembre 2008

La necessità della gioia - (di Brigida Liparoti)



Non sempre si ha voglia di guardare, non sempre ci si rende conto, quando si è nelle condizioni di “subire” la vita...
Quanto tempo ho camminato le vie del mondo (il mio piccolo mondo) con pesantezza, con tristezza, con rabbia. Quante domande nella mia testa cominciavano con un implacabile “perché”.
In poco più di tre anni e mezzo del cammino intrapreso al convento dei Frati Cappuccini di Tortona, all'inizio sembrava tutto bello, tutto nuovo; effettivamente non avevo mai respirato un'atmosfera così coinvolgente, nemmeno quando frequentavo il gruppo di “Rinnovamento nello Spirito Santo” della mia città (sono siciliana, il ché la dice lunga, se si pensa che i meridionali sono per tradizione più “caldi”). Sin dai primi primi giorni, sono stata colpita da problemi abbastanza gravi con dei vicini di casa, problemi che tutt'oggi si protraggono in tribunale. Se non avessi avuto il sostegno della preghiera e di quel “calore” che ricevevo durante la partecipazione all'Eucarestia, sarei stata pronta per crollare.
Le difficoltà si incontrano giornalmente, tuttavia la forza della Parola e degli insegnamenti mi fanno stare in piedi. Ci sono giorni più pesanti di altri, giorni davvero difficili, comunque non mi sento sola! La mia fortuna non la vedo quando sono insieme alle persone a cui voglio bene; la vedo invece quando sono per strada, sola, se mi soffermo a guardare i passi stanchi delle persone che incrocio, gli sguardi accigliati e una sorta di broncio, i visi “tirati” da preoccupazioni varie. Anch'io ero così, anch'io mi sono trovata a tirare avanti una vita di pesantezza, di disordine, di voglia di far niente, di veder niente.
Non so dire com'è cambiato tutto, ricordo però che tutto è iniziato quando, partecipando alla Messa, un certo sabato sera di febbraio, quando durante l'omelia una frase mi ha colpito in pieno petto facendomi spezzare il respiro in gola: “Ricordate che il male può tanto, ma Dio può tutto!”. Questa verità ha cambiato la mia vita senza che me ne rendessi conto. Tante cose d'allora mi hanno colpito; in questi ultimi mesi mi sono sentita presa di mira da alcuni fatti della vita che si sono concentrati in pochissimo tempo, ma gli insegnamenti ricevuti in questi tre anni e mezzo stanno dando i suoi frutti in questi ultimi tempi più che mai. Pregare chiedendo con fiducia il dono del discernimento mi sta aiutando a ripulirmi da intossicazioni da atteggiamenti sbagliati che avevo assunto con alcune persone, anche se ancora ho da lavorare su questo; sto ancora combattendo contro la pesantezza in certe giornate amare e difficili, ma ancora il conforto della Parola mi aiuta. Insomma, la mia vita non è cambiata, sono io ad essere cambiata, rischiando anche di perdermi (rischio da non sottovalutare mai). Sto ultimamente sperimentando anche i danni che può fare il seme della divisione e di come invece la separazione può rafforzare l'unione in spirito con persone il cui affetto è sincero e disinteressato... Si, è proprio un periodo difficile questo, periodo in cui l'aver aperto gli occhi in merito ad alcune situazioni e su alcune persone mi sta permettendo di mettermi in discussione.
In questo clima, la gioia la vedo come una necessità dell'anima, come un passo verso l'ignoto dilettevole, il bene che manca per arrivare alla Pace che ci occorre. Se penso che fino a tre anni fa ero praticamente allergica alla chiesa, che la vedevo quasi (Giovanni Paolo II a parte) come un covo pieno di persone poco chiare che ci nascondevano verità sconvolgenti (tutti danni di una divulgazione televisiva oppressiva e inneggiante al sospetto a tutti i costi), stento a riconoscermi. Cosa mi mancava? Magari qualcuno che mi guidasse alla “appartenenza” a Gesù dentro al Suo progetto chiamato “Chiesa”. Ho conosciuto alcune persone che si riuniscono per pregare, fanno catechesi, tengono discussioni su Gesù e sulla Bibbia senza una guida sacerdotale: pratica molto lodevole, per carità, ma fuori dalla chiesa di Dio le insidie e i pericoli si covano come nel popolo della chiesa, ma quale guida può essere più preparata di un sacerdote, un ministro di Dio, per aprire gli occhi, per rendere consapevoli e a cui, in certi casi, chiedere consigli nelle difficoltà? Il discorso fatto ai giovani da Benedetto XVI alla GMG di Colonia è stato preciso a questo riguardo: la buona fede non può esulare dalle responsabilità di rincorrere la fede buona!
Il lavoro da fare su me stessa è ancora tantissimo, la cosa però non mi spaventa, perché ho fiducia nelle parole del Signore, chiedo a Lui tanta forza e con umiltà amo pensare a tutto l'Amore di cui ho fino ad ora beneficiato come un minimo dell'Amore che mi aspetta tra le braccia del Padre. Spero solo di poterci arrivare senza perdermi per strada. Lui lo sa, mi ha fatta testarda, sa che userò tutta questa testardaggine per andare da Lui, ma se non mi aiuta nulla potrà mai farmi arrivare... e se io non permetto di ricevere il Suo “Aiuto” (lo Spirito Santo), non potrò arrivare mai. Una cosa è certa: Lui mi vuole, mi ha già voluta qui e si sa, non fa mai le cose a caso!
Abbraccio da Brigida.

martedì 16 settembre 2008

Tardi ti amai (Sant'Agostino) - (di Angela Delcuratolo)



Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Tu eri dentro di me ed io ero fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Tu eri con me, ma io non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace
(Sant'Agostino - Confessioni X, 27, 38)
Cosa commentare? Non è mai troppo tardi per aprire gli occhi, è vero…
Lui c'è sempre e c'è sempre stato… se non lo "sentivamo" è perche eravamo noi ad essere distanti oltre che distratti… eravamo noi a non accettarlo nella nostra vita… eravamo noi troppo presi da cose superficiali per accorgerci che ci stava aspettando… che stava aspettando che ci accorgessimo di Lui…
Per fortuna è molto paziente e sa aspettare a lungo… non si arrende perché ha fiducia in noi… Peccato, però, che non sempre siamo degni della Sua fiducia e peccato che in un attimo, per debolezza, per presunzione, per sfiducia potremmo nuovamente allontanarci da Lui… potremmo nuovamente dubitare di Lui… magari ancora per cose superficiali…
E' un'eventualità, questa, che non esclude nessuno… semplicemente perché siamo esseri umani… e come tali tremendamente imperfetti… Ma Lui ci sarà anche in quei momenti per correre in nostro aiuto… per non farci sbagliare nuovamente…
Io prego affinché quel giorno (se dovesse capitare) io saprò ascoltarLo per farmi riportare e guidare nella giusta direzione…

Angela Delcuratolo - Broni (PV)

lunedì 15 settembre 2008

Veglia di preghiera del giovani

Riceviamo dal nostro fratello Daniele Noè il discorso tenuto dal Santo Padre Benedetto XVI a Notre Dame.

VEGLIA DI PREGHIERA DEI GIOVANI
DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Sagrato della Basilica Notre-Dame
Parigi, venerdì 12 settembre 2008

Cari giovani,
dopo il raccoglimento orante dei Vespri a Notre-Dame, è con entusiasmo che voi mi salutate stasera, dando così un carattere festoso e molto simpatico a questo incontro. Esso mi richiama quello indimenticabile dello scorso luglio a Sydney, al quale alcuni di voi hanno partecipato in occasione della Giornata mondiale della Gioventù. Questa sera, vorrei parlarvi di due punti profondamente legati l’uno all’altro, che costituiscono un vero tesoro nel quale voi potrete porre il vostro cuore (cfr Mt 6, 21).
Il primo si collega col tema scelto per Sydney. E’ pure quello della vostra veglia di preghiera che sta per cominciare tra qualche istante. Si tratta di un passo degli Atti degli Apostoli, libro che alcuni qualificano molto giustamente come il Vangelo dello Spirito Santo: “Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni” (At 1, 8). Il Signore dice ora a voi queste parole. Sydney ha fatto riscoprire a molti giovani l’importanza dello Spirito Santo nella vita del cristiano. Lo Spirito ci mette intimamente in rapporto con Dio, presso il quale si trova la sorgente d’ogni ricchezza umana autentica. Tutti voi cercate di amare e di essere amati! È verso Dio che voi dovete volgervi per imparare ad amare e per avere la forza di amare. Lo Spirito, che è Amore, può aprire i vostri cuori per ricevere il dono dell’amore autentico. Tutti voi cercate la verità e volete viverne! Questa verità è Cristo. Egli è la sola Via, l’unica Verità e la vera Vita. Seguire Cristo significa veramente “prendere il largo”, come dicono diverse volte i Salmi. La strada della Verità è una e nello stesso tempo molteplice, secondo i diversi carismi, come la Verità è una e nello stesso tempo di una ricchezza inesauribile. Affidatevi allo Spirito Santo per scoprire Cristo. Lo Spirito è la guida necessaria per la preghiera, l’anima della nostra speranza e la sorgente della vera gioia.
Per approfondire queste verità di fede, vi incoraggio a meditare la grandezza del Sacramento della Confermazione che avete ricevuto e che vi introduce in una vita di fede adulta. È urgente comprendere sempre meglio questo sacramento per verificare la qualità e la profondità della vostra fede e per rafforzarla. Lo Spirito Santo vi fa avvicinare al Mistero di Dio e vi fa comprendere chi è Dio. Egli vi invita a vedere nel vostro prossimo il fratello che Dio vi ha donato per vivere in comunione con lui, umanamente e spiritualmente, per vivere nella Chiesa dunque. Nel rivelarvi chi è il Cristo morto e risuscitato per noi, Egli vi spinge a testimoniare. Voi siete nell’età della generosità. È urgente parlare di Cristo attorno a voi, alle vostre famiglie e ai vostri amici, nei vostri luoghi di studio, di lavoro o di divertimento. Non abbiate paura! Abbiate “il coraggio di vivere il Vangelo e l’audacia di proclamarlo” (Messaggio ai giovani del mondo, 20 luglio 2007). Per questo io vi incoraggio a trovare le parole adatte per annunciare Dio intorno a voi, poggiando la vostra testimonianza sulla forza dello Spirito implorata nella preghiera. Portate la Buona Novella ai giovani della vostra età e anche agli altri. Essi conoscono le turbolenze degli affetti, la preoccupazione e l’incertezza di fronte al lavoro ed agli studi. Affrontano sofferenze e fanno l’esperienza di gioie uniche. Rendete testimonianza di Dio, perché, in quanto giovani, voi fate pienamente parte della comunità cattolica in virtù del vostro battesimo e in ragione della comune professione di fede (cfr. Ef 4, 5). La Chiesa conta su di voi, ci tengo a dirvelo!
In questo anno dedicato a san Paolo, vorrei affidarvi un secondo tesoro, che era al centro della vita di questo Apostolo affascinante: si tratta del mistero della Croce. Domenica, a Lourdes, celebrerò la festa della Croce Gloriosa unendomi ad innumerevoli pellegrini. Molti di voi portano al collo una catena con una croce. Anch’io ne porto una, come tutti i Vescovi del resto. Non è un ornamento, né un gioiello. È il simbolo prezioso della nostra fede, il segno visibile e materiale del legame con Cristo. San Paolo parla chiaramente della Croce all’inizio della sua Prima Lettera ai Corinzi. A Corinto, viveva una comunità agitata e turbolenta che era esposta ai pericoli della corruzione presente nell’ambiente. Questi pericoli sono simili a quelli che conosciamo oggigiorno. Non citerò che i seguenti: le discussioni e le contese all’interno della comunità dei credenti, la seduzione esercitata dalle pseudo-sapienze religiose o filosofiche, la superficialità della fede e la morale dissoluta. San Paolo inizia la sua lettera scrivendo: “La parola della Croce è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio” (1 Cor 1, 18). Poi l’Apostolo mostra l’opposizione singolare che esiste fra la sapienza e la follia, secondo Dio e secondo gli uomini. Egli ne parla quando evoca la fondazione della Chiesa a Corinto e, poi, a proposito della propria predicazione. Egli conclude insistendo sulla bellezza della sapienza di Dio che Cristo – e, sulle sue orme, i suoi Apostoli - sono venuti ad insegnare al mondo e ai cristiani. Questa sapienza, misteriosa e restata nascosta (cfr 1 Cor 2, 7), ci è stata rivelata dallo Spirito, perché “l’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito” (1 Cor 2, 14).
Lo Spirito apre all’intelligenza umana nuovi orizzonti che la superano e le fa capire che l’unica vera sapienza risiede nella grandezza di Cristo. Per i cristiani la Croce è simbolo della sapienza di Dio e del suo amore infinito rivelatosi nel dono salvifico di Cristo morto e risorto per la vita del mondo, per la vita di ciascuno e di ciascuna di voi in particolare. Possa questa scoperta di un Dio che si è fatto uomo per amore, questa scoperta sconvolgente invitarvi a rispettare e a venerare la Croce ! Essa è non soltanto il segno della vostra vita in Dio e della vostra salvezza, ma è anche – voi lo comprendete – la testimone muta dei dolori degli uomini e, allo stesso tempo l’espressione unica e preziosa di tutte le loro speranze. Cari giovani, io so che venerare la Croce attira a volte la derisione e anche la persecuzione. La Croce mette in questione in qualche modo la sicurezza umana, ma rende sicura, anche e soprattutto, la grazia di Dio e conferma la nostra salvezza. Questa sera, io vi affido la Croce di Cristo. Lo Spirito Santo ve ne farà comprendere i misteri d’amore e voi esclamerete allora con san Paolo: “Quanto a me non ci sia altro vanto che nella Croce del nostro Signore Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6, 14). Paolo aveva capito la parola di Gesù – apparentemente paradossale - secondo cui solo donando (”perdendo”) la propria vita la si può trovare (cfr Mc 8,35; Gv 12,24) e ne aveva concluso che la Croce esprime la legge fondamentale dell’amore, la formula perfetta della vera vita. Possa l’approfondimento del mistero della Croce far scoprire ad alcuni fra voi la chiamata a servire Cristo in maniera più totale nella vita sacerdotale o religiosa!
È tempo ora di cominciare la veglia di preghiera, per la quale vi siete raccolti stasera. Non dimenticate i due tesori che il Papa vi ha presentato stasera: lo Spirito Santo e la Croce ! Vorrei, per concludere, dirvi ancora una volta che io conto su di voi, cari giovani, e desidererei che voi faceste esperienza oggi e domani della stima e dell’affetto della Chiesa! Ora, noi vediamo qui la Chiesa vivente…Che Dio vi accompagni ogni giorno e benedica voi insieme con le vostre famiglie e i vostri amici. Ben volentieri imparto a voi la Benedizione Apostolica , così come a tutti i giovani della Francia.Grazie per la vostra fede e buona veglia.

domenica 14 settembre 2008

Liturgia della Esaltazione della Santa Croce

14 SETTEMBRE
ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE
Festa
LETTURE: Nm 21, 4b-9; Sal 77; Fil 2, 6-11; Gv 3, 13-17
Gli Orientali oggi celebrano la Croce con una solennità paragonabile a quella della Pasqua. Costantino aveva fatto costruire a Gerusalemme una basilica sul Golgota e un’altra sul Sepolcro di Cristo Risorto. La dedicazione di queste basiliche avvenne il 13 settembre dei 335. Il giorno seguente si richiamava il popolo al significato profondo delle due chiese, mostrando ciò che restava del legno della Croce del Salvatore. Da quest’uso ebbe origine la celebrazione del 14 settembre. A questo anniversario si aggiunse poi il ricordo della vittoria di Eraclio sui Persiani (628), ai quali l’imperatore strappò le reliquie della Croce, che furono solennemente riportate a Gerusalemme. Da allora la Chiesa celebra in questo giorno il trionfo della Croce che è segno e strumento della nostra salvezza. «Nell’albero della Croce tu (o Dio) hai stabilito la salvezza dell’uomo, perché donde sorgeva la morte di là risorgesse la vita, e chi dall’albero traeva vittoria, dall’albero venisse sconfitto, per Cristo nostro Signore» (prefazio).L’uso liturgico che vuole la Croce presso l’altare quando si celebra la Messa, rappresenta un richiamo alla figura biblica del serpente di rame che Mosè innalzò nel deserto: guardandolo gli Ebrei, morsicati dai serpenti erano guariti. Giovanni nel racconto della Passione dovette aver presente il profondo simbolismo di questo avvenimento dell’Esodo (cf prima lettura), e la profezia di Zaccaria, quando scrive: «Volgeranno lo sguardo a Colui che hanno trafitto » (Zc 12,10; Gv 19,37).Il simbolo della croce ha sacralizzato per secoli ogni angolo della terra e ogni manifestazione sociale e privata. Oggi rischia di essere spazzato via o peggio strumentalizzato da una moda consumistica. Tuttavia rimane sempre un simbolo che fa volgere lo sguardo a tutti i «crocifissi» di sempre: i poveri, gli ammalati, i vecchi, gli sfruttati, i bambini subnormali, ecc. Essi sono i più degni di essere collocati nel «vivo» delle nostre messe. A noi, figli del «benessere», verrà la salvezza tramite loro, per i quali è sempre valida la parola del Vangelo: «Avevo fame... avevo sete... ero forestiero... ero nudo... ero malato...» (Mt 25).
La croce è gloria ed esaltazione di Cristo
Dai «Discorsi» di sant'Andrea di Creta, vescovo(Disc. 10 sull'Esaltazione della santa croce; PG 97, 1018-1019. 1022-1023).
Noi celebriamo la festa della santa croce, per mezzo della quale sono state cacciate le tenebre ed è ritornata la luce. Celebriamo la festa della santa croce, e così, insieme al Crocifisso, veniamo innalzati e sublimati anche noi. Infatti ci distacchiamo dalla terra del peccato e saliamo verso le altezze. E' tale e tanta la ricchezza della croce che chi la possiede ha un vero tesoro. E la chiamo giustamente così, perché di nome e di fatto è il più prezioso di tutti i beni. E' in essa che risiede tutta la nostra salvezza. Essa è il mezzo e la via per il ritorno allo stato originale.Se infatti non ci fosse la croce, non ci sarebbe nemmeno Cristo crocifisso. Se non ci fosse la croce, la Vita non sarebbe stata affissa al legno. Se poi la Vita non fosse stata inchiodata al legno, dal suo fianco non sarebbero sgorgate quelle sorgenti di immortalità, sangue e acqua, che purificano il mondo. La sentenza di condanna scritta per il nostro peccato non sarebbe stata lacerata, noi non avremmo avuto la libertà, non potremmo godere dell'albero della vita, il paradiso non sarebbe stato aperto per noi. Se non ci fosse la croce, la morte non sarebbe stata vinta, l'inferno non sarebbe stato spogliato.E' dunque la croce una risorsa veramente stupenda e impareggiabile, perché, per suo mezzo, abbiamo conseguito molti beni, tanto più numerosi quanto più grande ne è il merito, dovuto però in massima parte ai miracoli e alla passione del Cristo. E' preziosa poi la croce perché è insieme patibolo e trofeo di Dio. Patibolo per la sua volontaria morte su di essa. Trofeo perché con essa fu vinto il diavolo e col diavolo fu sconfitta la morte. Inoltre la potenza dell'inferno venne fiaccata, e così la croce è diventata la salvezza comune di tutto l'universo.La croce è gloria di Cristo, esaltazione di Cristo. La croce è il calice prezioso e inestimabile che raccoglie tutte le sofferenze di Cristo, è la sintesi completa della sua passione. Per convincerti che la croce è la gloria di Cristo, senti quello che egli dice: «Ora il figlio dell'uomo è stato glorificato e anche Dio è stato glorificato in lui, e lo glorificherà subito» (Gv 13, 31-32).E di nuovo: «Glorificami, Padre, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse» (Gv 17, 5). E ancor: «Padre glorifica il tuo nome. Venne dunque una voce dal cielo: L'ho glorificato e di nuovo lo glorificherò» (Gv 12, 28), per indicare quella glorificazione che fu conseguita allora sulla croce. Che poi la croce sia anche esaltazione di Cristo.
LITURGIA DELLA PAROLA
Prima Lettura Nm 21, 4b-9
Chiunque sarà stato morso e guarderà il serpente, resterà in vita.
Dal libro dei Numeri
In quei giorni, il popolo non sopportò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: «Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero». Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e un gran numero d’Israeliti morì. Il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da noi questi serpenti». Mosè pregò per il popolo. Il Signore disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita». Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita.
Salmo Responsoriale Dal Salmo 77
Non dimenticate le opere del Signore!
Ascolta, popolo mio, la mia legge,
porgi l’orecchio alle parole della mia bocca.
Aprirò la mia bocca con una parabola,
rievocherò gli enigmi dei tempi antichi.
Quando li uccideva, lo cercavano
e tornavano a rivolgersi a lui,
ricordavano che Dio è la loro roccia
e Dio, l’Altissimo, il loro redentore.
Lo lusingavano con la loro bocca,
ma gli mentivano con la lingua:
il loro cuore non era costante verso di lui
e non erano fedeli alla sua alleanza.
Ma lui, misericordioso, perdonava la colpa,
invece di distruggere.
Molte volte trattenne la sua ira
e non scatenò il suo furore.
Seconda Lettura Fil 2, 6-11
Cristo umiliò se stesso; per questo Dio lo esaltò.
Dalla lettera di San Paolo apostolo ai Filippési
Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.
Vangelo Gv 3, 13-17
Bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo.
Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».

mercoledì 10 settembre 2008

17 - L'emendazione fraterna - "La sapienza del cuore" (di Padre Fabrizio Carli)



La vera benevolenza ci aiuta anche a compiere la delicata carità dell’emendazione del nostro prossimo. Abbiamo visto che è un atto delicato d’amore il desiderare che una persona difettosa si emendi, perché si arricchisca di quel bene morale che consiste appunto nell’emendarsi dal male, anche dal minimo male. Ed aiutare una persona a raggiungere questo bene, è squisito atto di carità. Il cuore buono, il cuore benevolente, vuole tutto il bene possibile al suo prossimo, perciò vuole e cerca anche questo bene.Ed è qui più che mai che deve intervenire la sapienza del cuore. Dicendo sapienza, intendiamo certo l’intuito e il calore del cuore, ma ci riferiamo più ancora alla discrezione che è l’intuito del cuore illuminato dall’intelligenza: è cioè quella comprensione, quel discernimento, quella delicatezza di capire e di considerare, per cui non solo ci si rende conto della situazione del nostro prossimo, ma si riesce anche a trovare il modo più opportuno e delicato di comportarci con esso.Ne deriva quindi una sapiente capacità di adattamento, una varietà di atteggiamenti, una delicatezza ed opportunità di tratto che sa tenere conto di tutto, sa comprendere e soprattutto attendere. Sa attendere il momento opportuno per intervenire, la circostanza favorevole, la disposizione d’animo migliore del nostro prossimo. Un avviso, per esempio, o un’osservazione, od un rimprovero -quando occorra – bisogna saperlo fare quando chi lo deve ricevere ha la dovuta disposizione. La carità infatti mira la vero bene del fratello; ora, questo bene può anche esigere che si sappia differire l’osservazione e l’ammonizione.Questo è richiesto anche dal rispetto che sempre dobbiamo alla persona altrui; rispetto, al quale l’uomo è sensibilissimo, ed è naturale che sia così; ma è una sensibilità che facilmente sconfina nella suscettibilità, per cui basta un minimo, talvolta, per offenderla. Questo non deve certo distoglierci dall’intervenire per aiutare il nostro prossimo ad emendarsi da eventuali difetti; deve solo portarci a saper scegliere il momento e il modo migliore per farlo, senza mai urtare la suscettibilità. Altrimenti, la nostra non è più vera carità, poiché la vera carità conosce sempre la delicatezza e la discrezione.La vera discrezione ci porta anche a saperci fare tutto a tutti. È la grande affermazione di san Paolo, l’uomo dal cuore ardente della carità di Cristo: “Mi faccio tutto a tutti, per guadagnare tutti” (1 Cor 9,22). Farsi tutto a tutti significa appunto comprendere ciascuno così com’è, accettarlo per quello che è, non meravigliarsene, non fargli pesare la sua condizione, ma mettersi sullo stesso piano, immedesimarsi con lui. Significa inoltre assumere di fronte a ciascuno un atteggiamento che non solo varia da individuo a individuo, ma che può variare nei riguardi dello stesso individuo, a seconda delle diverse circostanze.Nessuno schema prestabilito può suggerire l’atteggiamento da tenere di volta in volta, perché nella realtà quotidiana ci troveremo sempre di fronte ad un individuo concreto, con quella sua coscienza, con quel suo animo, con quella sua mentalità, con quel suo mondo interiore che no può venire ristretto entro uno schema astratto. Soltanto l’intuito del cuore e la luce dell’intelligenza amativa potranno suggerire il nostro atteggiamento, il tono esatto, la misura giusta, il modo opportuno di agire di fronte a ciascuno dei nostri fratelli. Soltanto la “sapienza” del cuore, dunque, potrà illuminarci e sostenerci.San Paolo non solo ci raccomanda di “rallegrarci con quelli che sono nella gioia e di piangere con quelli che sono nel pianto” (Rm 12,15), ma ci incoraggia col suo esempio: “Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero: mi sono fatto giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con cloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, pur non essendo sotto la legge, allo scopo di guadagnare coloro che sono sotto la legge. Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge, pur non essendo senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo, per guadagnare coloro che sono senza legge. Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno” (1Cor 9,19-22).