domenica 23 novembre 2008

"La domenica di Cristo Re" (di padre Valter ARRIGONI)

Siamo arrivati alla fine dell’anno liturgico e la Chiesa ci invita a contemplare Cristo, re dell’universo. Tre sono le traiettorie delle domande che siamo invitati a porci, i percorsi della riflessione alla luce della Parola che ci viene donata e con la quale dobbiamo confrontare la nostra vita secondo l’ammonimento del Signore: “non chi dice: Signore, Signore ma chi fa la volontà del Padre mio entrerà nel Regno dei cieli”, “chi ascolta la mia Parola e la mette in pratica è per me fratello, sorella e madre.” Anche l’apostolo Giacomo ci invita con la sua abituale franchezza ad essere ascoltatori che mettono in pratica e non solo persone che illudono se stesse dicendosi che hanno ascoltato la Parola. Usa un’immagine eloquente quando paragona gli ascoltatori che non agiscono di conseguenza alle persone che si guardano allo specchio e poi appena si sono allontanate non ricordano più il loro volto. Il nostro volto, la nostra identità, i valori che seguiamo, le verità della nostra vita sono descritte, definite, illuminate dalla Parola.
Questa domenica dunque ci sono almeno tre aspetti su cui fermarci. Cristo è il re dell’universo, siamo chiamati ad adorarlo, a porre il suo trono anche nella nostra vita, nel nostro cuore e questa centralità di Cristo si vede dalle nostre azioni.
Le due premesse, che mi sembra di dover fare, sono sulla necessità di fermarci a riflettere. Sembra un tempo inutile quello della riflessione ma è invece indispensabile e la Chiesa (mater et magistra) ci chiede di fermarci a riflettere proprio prima del tempo di Avvento. Tempo forte di conversione. Quasi che questa domenica dobbiamo tracciare la strada da seguire fino a Natale. La penitenza nella spiritualità cristiana non è fine a se stessa ma è un cammino di formazione, di rieducazione della nostra persona e della nostra vita. Il termine, soprattutto quaresimale, di quaranta giorni, il numero quaranta, non indica un tempo di penitenza ma soprattutto di formazione. Ci fermiamo oggi, rivediamo la nostra vita, ci decidiamo alla conversione, scopriamo la nostra malattia spirituale e lasciamo a Dio il compito di tracciare il cammino da seguire. E dalla domenica che verrà, la prima di Avvento cominciamo a camminare su vie nuove fino all’incontro con il Signore che viene di nuovo in mezzo a noi nel Natale.
L’altra premessa fondamentale riguarda i comportamenti sui quali saremo giudicati. Le opere di misericordia che ci invitano, ci obbligano ad amare “il più piccolo dei fratelli”. Ci sono due tentazioni nella lettura e nella spiegazione delle parole di Gesù; da una parte l’eccessiva spiritualizzazione delle categorie dei poveri cui fa riferimento. Affamati, assetati, nudi, forestieri, malati e carcerati. Alcuni vogliono leggere in queste parole solo delle situazioni dello spirito, come se non esistessero uomini che sono davvero affamati, assetati, nudi, forestieri, carcerati nelle prigioni e non prigionieri dei loro vizi, malati negli ospedali e non come conseguenza dei loro peccati. Questi “spiritualisti” si lavano le mani davanti al male del mondo, alle sofferenze degli uomini. Alimentano e giustificano così la loro avarizia, il loro egoismo, l’impegno profuso nella difesa del loro benessere, del benessere della loro famiglia, dei figli, della patria. L’altro rischio è quello opposto cioè quello di coloro che leggono queste parole solo come aiuto alla carne dell’uomo, vedono solo l’orizzonte della terra e del mondo. Dimenticano che l’uomo è anche spirito, intelligenza e dignità.
Il brano del Vangelo viene dal capitolo XXV di Matteo. E’ il capitolo che ci ha accompagnato in queste ultime tre domeniche. La parabola delle vergine sagge e delle vergini stolte ci è ha detto che dobbiamo vigilare perché lo sposo, il Signore, torna quando non ce lo aspettiamo. Ci viene chiesto di avere abbastanza olio, preghiera e carità, fede e speranza per affrontare la notte e farci trovare pronti. La scorsa domenica il Vangelo dei talenti ci ha insegnato che ci sarà un giudizio perché tutto quanto ci è stato dato in affidamento, in consegna, anche la nostra vita, il mondo, le persone che incontriamo. Tutto ci è affidato e ci vengono dati a talenti per compiere bene l’opera. Talenti che dobbiamo far fruttare senza paura e senza pigrizia. oggi ci viene detto quale è il contenuto del giudizio, le domande alle quali con le opere della nostra vita abbiamo risposto. Sono domande concrete, sono fatti che o ci sono o non ci sono. Domande alle quali possiamo rispondere solo con un sì o un no. “Il vostro parlare sia sì sì, no no, il resto viene dal diavolo”.Qui non si tratta di fare discussioni accademiche. Il giudice è Dio stesso. Non un filosofo o un avvocato.
Il giudizio al quale Matteo si riferisce è il giudizio finale. Fino ad allora c’è il purgatorio come luogo nel quale possiamo ancora purificarci. Dopo ci sarà solo il paradiso o l’inferno.
Finisce allora il tempo intermedio che passa fra la venuta di Gesù sulla terra ed il suo ritorno nella gloria. Il tempo del giudizio particolare che attende ogni uomo al momento della morte. Il giudizio al quale si riferisce Matteo è quello universale, finale.
La pagina del Vangelo inizia con una descrizione apocalittica, gloriosa, densa di immagini, di simboli. “Quando il Figlio dell’uomo verrà … seduto su un trono … con gli angeli e i giusti”. il Figlio dell’uomo fino al profeta Daniele ed alle sue visioni significa l’uomo stesso (“che cosa è l’uomo perché te ne ricordi o il figlio dell’uomo perché te ne dia pensiero?”) ma con il profeta Daniele questa immagine viene ad indicare una creatura divina tanto che quando durante il suo processo Gesù la applicherà a se stesso susciterà scandalo e la reazione del Sommo Sacerdote ch si straccia le vesti. anche le altre immagini usate da Matteo vengono dal cerimoniale di un re d’oriente nella sua corte, nella reggia, nella sala del trono.
“E saranno riunite davanti a lui tutte le genti”. Il giudizio è universale riguarda tutte le genti non solo ebrei e cristiani. Dio è il Dio di tutti gli uomini, Gesù salva tutta l’umanità. Lo ripetiamo ogni volta nella consacrazione quando diciamo del pane che diventa carne di Cristo “prendete e mangiatene tutti” e sul calice del vino “bevetene tutti … versato per voi e per tutti”. Gesù è il salvatore, la via, la vita e la verità di ogni essere umano anche del più lontano da lui.
Il criterio del giudizio è universale. Tutti gli uomini, qualunque sia la loro razza, etnia, religione, qualunque sia il loro credo filosofico, politico, ideologico, sono uomini se amano. le categorie delle quali parla Gesù sono universali. Affamati ed assetati rappresentano i bisogni essenziali dell’umanità che pur tuttavia vengono negati ad alcuni. Nudi e forestieri sono il segno della dignità di chi ha lavoro e casa e dell’umiliazione di coloro che non hanno di che coprirsi ed un tetto sotto cui ripararsi. Infine malati e carcerati sono gli emarginati, gli esclusi coloro che non appartengono a nessuno. Al tempo di Gesù si pensava che la malattia fosse una maledizione di Dio per i peccati commessi. Il malato era escluso come colui che si trovava in carcere.
E’ chiaro per Gesù che questa attenzione all’uomo, alla dignità della persona è così valida per tutti che i giusti, coloro che fanno le opere di misericordia non le fanno per amore di Gesù. Infatti affermano di non avere mai incontrato il Signore.”Signore quando mai ti abbiamo veduto affamato … assetato … nudo … forestiero … malato … in carcere?” Cioè non abbiamo amato il povero per amare te ma perché ci muovevano tenerezza e compassione per l’uomo, per l’essere umano, per la sua dignità. E Gesù dirà loro “ogni cosa che farete al più piccolo dei miei la fate a me”: Non si tratta qui di in Dio solidale col povero, difensore dell’orfano e della vedova, portatore d libertà per il prigioniero, di vista per il cieco ma di Dio che si identifica col povero. “Io, Gesù, il tuo Dio, quello che adori nei tabernacoli, nelle processioni sono il carcerato, il malato, il forestiero”. “Ecco io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura … io stesso giudicherò”.
Lascio alla fine di questa meditazione una domanda provocatoria. Che cosa significa amare il prossimo? Cosa vuol dire carità? come aiutare davvero il forestiero? l’ammalato? Il carcerato? dobbiamo riflettere, secondo me, sul vero significato della carità: I pochi spiccioli che diamo per tacitare le nostre coscienze, per sentirci giusti non sono la vera carità. un proverbio cinese dice che all’affamato che ti chiede un pesce tu devi dare una canna da pesca ed insegnargli a pescare. Agli zingari, ai rumeni, ai neri che si trovano agli incroci delle nostre strade a chiedere la carità (non dovremmo mai usare questo termine per al posto di offerta) gli spiccioli che diamo non cambiano la situazione, non la risolvono ma li lasciano senza dignità. La vera, più grande, utile carità è ridare ad ogni uomo la sua dignità di immagine e somiglianza con Dio. per questo Gesù si identifica con ogni uomo, soprattutto il più piccolo, quello al quale è stata tolta la dignità.

venerdì 21 novembre 2008

"La farfalla materialista" (di Angela DELCURATOLO)

La farfalla materialista non avendo mai visto l'inverno e non avendo mai visto uno dei suoi simili tornarne ne concludeva: "L'inverno non esiste", "fratelli alati" diceva, "da un po' di tempo circolano tra noi discorsi sconsiderati concernenti un altro mondo che certi deboli chiamano Inverno. Quante cose inverosimili, quante sciocchezze sono state raccontate a proposito di questo mitico paese! Sembra che laggiù la terra sia dura come cemento, che l'acqua diventi come vetro, che la si possa tagliare in cubi. Perfino la pioggia non è più pioggia e cade sotto forma di cristalli chiamati neve. Acqua solida! Pioggia in fiocchi! Mi sia permesso ridere del riso severo dei grandi umoristi! Come se potessero esistere altri stati della materia oltre a quelli che noi conosciamo: la terra friabile, e l'acqua liquida! In questo continuum spazio-tempo, ci dicono, gli alberi non portano più quelle foglie, quei fiori, quei frutti destinati fin dall'eternità a nutrirci; Lo stesso sole, che si accende ogni mattina per illuminare i nostri giochi, non è che un pallido globo senza né luce né calore. E quello che è veramente il colmo dell'assurdo e dell'impossibile, la razza degli insetti, che qualificherei divina se esistesse un Dio, è completamente assente da questo preteso aldilà della primavera-estate. Si fratelli lepidotteri, reggetevi, la farfalla, questo essere che i felici casi dell'evoluzione hanno vestito di porpora, di smeraldo e di blu notte, questa magnifica gemma della corona degli esseri, è totalmente scomparsa da un mondo di cui è ornamento e la finalità è, anzi la teologia. Come razionalista, non posso parlare di finalità. Nel paese chiamato inverno sussisterebbero solamente le razze primitive: uccelli, rettili, mammiferi, uomini. Solo queste specie inferiori dalla mente fondamentalmente ingenua e pre-logica, credono nell'inverno e pretendono di averlo attraversato. Sono loro che hanno sparso tra noi queste voci ridicole, infantili, insensate, e io sono desolata di constatare che certe farfalle, dimentiche della loro dignità originale, hanno fatto eco a quanto raccontano questi poveri esseri, sprovvisti di qualsiasi razionalità. Quanto a me, con tutta la forza delle mie convinzioni logiche e scientifiche, fondate sull'esperienza mia e su quella della mia razza, affermo che non esiste, che non può esistere altro mondo se non quello che ci circonda e che i vostri antenati hanno chiamato primavera-estate. L'inverno non esiste e non può esistere per la semplice ragione che mai nessuna farfalla è tornata per dirci com'è!"


Che dire dunque? Direi che troppe "farfalle materialiste" prevalgono nel mondo...Ci impongono le loro idee "razionali" come verità e certezze...Anche io facevo parte della categoria di quelle "farfalle"...Ma poi, grazie a Dio, qualcosa è cambiato...anzi tutto è cambiato...la Fede ha preso il posto del materialismo...e devo dire che la vita prende una forma decisamente migliore!

Angela Delcuratolo - Broni (PV)

lunedì 17 novembre 2008

"La fede e la legge" (di padre Valter ARRIGONI)

Ai tempi di Gesù la sinagoga conosceva 613 comandamenti, di cui 248 positivi (fai questo ...) e 365 (quanti sono i giorni di un anno) negativi (non fare ...). A loro volta questi 613 comandi erano divisi in grandi e piccoli. Una tale lacerazione dell’amore verso Dio tranquillizzava i farisei perché sapevano, con questa morale del permesso e del proibito, fino a che punto potevano spingersi senza commettere peccato. Con questa morale della bilancetta sapevano cioè di che cosa Dio doveva premiarli. Spesso troviamo nei Vangeli farisei, dottori della Legge, gente qualunque che chiede a Gesù: “cosa devo fare?”, “secondo te cosa è giusto”, “dobbiamo o no pagare il tributo a Cesare”. Nella più parte dei casi queste domande sono fatte per “cogliere Gesù in fallo e poterlo condannare”. Anche questa domenica il Vangelo, come domenica scorsa, è introdotto dalla frase “i farisei sapendo che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducei”. I farisei sono le guide spirituali del popolo di Israele, sono esperti nella Legge, la Parola di Dio. sono un movimento che oggi chiameremmo trasversale perché al loro interno c’erano sacerdoti, rabbini, laici impegnati. Il loro desiderio era di essere fedeli alla Legge del Signore, di non contaminarsi, di essere esemplari per gli altri e di guidarli sulla vie della vera fede. Non erano mossi da sentimenti negativi. Erano impegnati. Uomini di preghiera. Osservanti. Verso di loro hanno sentimenti molto negativi i primissimi cristiani, gli autori stessi dei Vangeli, perché i farisei erano i persecutori di Gesù e dei cristiani, portarono a morte il Signore ed uccisero Stefano, Giacomo ed altri fratelli. Li uccisero perché il cristianesimo era visto come una eresia, una bestemmia contro YHWH, l’unico e vero Dio. i cristiani affermavano che YHWH non era uno solo ma tre persone. Addirittura che un uomo, conosciuto da tutti, un rabbi autorevole ma pur sempre un uomo, addirittura morto in croce (era la morte dei maledetti), Gesù di Nazaret, era Dio. Questa affermazione per i pii ebrei era una vera e propria bestemmia. Anche le parole di Gesù, del loro maestro, ed i suoi atteggiamenti, andavano contro la Legge. Parlava con i romani. Si intratteneva con pubblicani, ladri e prostitute. Spesso in pubblico li metteva a tacere e faceva loro fare una brutta figura. Gesù dava fastidio a tutti. I sadducei non erano amici dei farisei. Appartenevano alle classi sacerdotali alte, come se fossero la nobiltà, erano filo romani, perché Roma garantiva loro il potere. Poiché per loro la Bibbia consisteva solo nei primi cinque libri, il pentateuco (gli altri, profeti- sapienziali-. Storici, erano stati inseriti nella Bibbia durante l’esilio e dopo dagli scribi e dai dottori della Legge, ed i sadducei non riconoscevano a questi il diritto di aprire il canone della Scrittura) non credevano nella risurrezione dei morti. Erano “nemici” ma quando si è trattato di eliminare Gesù si sono alleati! Oggi un dottore della Legge, fariseo, infastidito da questo Rabbi che non si sa dove abbia studiato, da dove venga, a che scuola appartenga, che si permette di saperne più di tutti e di essere ammirato dal popolo, dai soldati (“parla come nessun altro”, “opera miracoli con la potenza di YHWH”) gli chiede “Maestro (captatio benevolentiae cioè fare un complimento per creare un clima di benevolenza, ma il complimento spesso non è sincero) quale è il grande comandamento?” anche la parabola del buon samaritano viene introdotta dalla domanda di un fariseo, per giustificarsi della brutta figura fatta, inizia anche lei con una “captatio benevolentiae”, e chiede un elenco “chi è il mio prossimo?”. Come dire, “fammi un elenco di coloro che hanno diritto ad essere amati da me così anche se non amo gli altri, non pecco, non vado incontro al castigo di Dio”. Gesù risponde citando due passi presi dal Deuteronomio e dal Levitico, libri del Pentateuco, libri che contengono diversi comandamenti, precetti, indicazioni di atteggiamenti ma che in questi due punti fanno la sintesi della Legge. Quasi che Dio nell’ispirare le leggi si sia accorto del rischio che gli uomini si disperdessero nelle cose da fare perdendo la ragione, il motivo, quello che conta. “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore (intensità di affetti), con tutta l’anima (intensità di ascolto) e con tutta la mente (intensità di meditazione). Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Solo la nostra impossibilità a dire le parole una sopra l’altra ci costringe a fare un elenco, ma il secondo vale come il primo, sono allo stesso livello, sono interscambiabili. Dio si identifica con la sua creatura, dio si identifica con l’uomo. Quello che fai ad un uomo lo fai a Dio. Questa identificazione Matteo la renderà ancora più radicale ed esplicita quando racconterà il giudizio universale nel quale Gesù che verrà nella gloria per giudicare tutti arriva a dire “ogni cosa che fate al più piccolo dei miei fratelli la fate a me ed ogni cosa che non fate loro è a me che non la fate”. Gesù che si identifica, si immedesima, ci chiede di riconoscerlo “nell’affamato, nell’assetato, nel malato, nel carcerato, nel forestiero”. Sempre al dottore della Legge fariseo chiarisce il cuore dei comandamenti di Dio: “Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge ed i Profeti”cioè “in queste due affermazioni c’è tutta la rivelazione di YHWH”.
“La Legge ed i Profeti” sono infatti un modo per indicare tutta la Bibbia, l’Antico Testamento, per gli ebrei.
Sono solo due i suggerimenti che vi propongo per la riflessione: molti sono tentati di ridurre la fede alla legge, all’osservanza formale di alcune regole; ma che cosa significa la parola “amore”?
La riduzione della fede, della religione (fede organizzata) alla legge, ad un insieme di precetti, di osservanze formali era il peccato che Gesù stesso contestava ai farisei. Diceva loro che per rispetto delle regole dimenticavano gli uomini. Quasi che Dio fosse solo interessato al culto della sua “persona” a scapito dell’amore fraterno, della carità verso i poveri, i deboli (nei salmi troviamo le categorie degli orfani e delle vedove come simbolo di tutti i poveri). Gesù è stato mandato dal Padre per rivelare il suo vero volto, il suo cuore, il cuore della sua legge e della preghiera. Cosa vuol dire cioè essere uomini di Dio, secondo il suo cuore. Cosa fare? Come comportarsi? Come pensare? Come essere? Siamo chiamati a convertirci cioè a cambiare il nostro modo di essere, di pensare, pregare, agire. Non più secondo quello che pensiamo noi o come ci hanno educati ma essere, pensare, agire, pregare come vuole Dio. Ci sono troppi farisei fra di noi. Non solo (anche, purtroppo) nel senso di ipocriti, falsi, pettegoli ...) ma soprattutto gente convinta che le fede, l’esperienza gioiosa di Dio sia solo riducibile all’osservanza della legge. La fede è per prima cosa amore di Dio e del prossimo. Prima e forse unica.
Ma qui viene la seconda riflessione: cosa significa amare?
Oggi mi fermo solo su un aspetto di questa parola che è immensa nei suoi contenuti. D’altra parte “amore” è un nome di Dio. Nel meditare oggi su questa parola ho colto questa aspetto:amare è mettere l’altro al centro della tua vita. Non dargli i ritagli, le frattaglie del tuo tempo, dei tuoi sentimenti, del tuo cuore, della tua vita (se ho tempo ... se mi resta qualcosa ... dopo tutto e tutti vieni anche tu ... prima devo pensare a me stesso ...). Gesù nel mettere sullo stesso piano Dio ed il prossimo ci insegna che Dio stesso esce da se stesso e pone al centro della sua vita, del suo cuore, della sua passione noi, gli uomini, fino a dare suo Figlio, il suo unico Figlio, per noi.
Andare verso Dio è uscire dal mondo dove io sono il centro e mettere al centro un Altro e gli altri.

sabato 15 novembre 2008

"Fratelli ovunque" (Gabriella, Francesco, Giovanni e Raffaele)

Leggendo una testimonianza su queste pagine ci hanno colpito e fatto riflettere alcune parole: "sono le persone, i fratelli, e non i luoghi la cosa più importante in un'esperienza di Dio" e "l'esperienza di Lui la fanno le persone non i luoghi".
Questo semplice concetto ci sembra vero in rapporto all'esperienza che stiamo vivendo in questo periodo, che per noi è occasione di crescita ma anche di scelte più precise per la vita e la relazione con i fratelli. Ed è vero anche perchè le persone le porti soprattutto nel cuore e da lì, ovunque le incontri, quello diventa un luogo speciale; ciò può valere anche per una "compagnia" di persone, caratterizzata cioè dall'amicizia, guidata dal proprio pastore, sacerdote, così come Gesù stesso ci ha insegnato con la sua vita.
La casa di preghiera, la "casa del Signore",nella chiesa, può essere forse anche questo. A volte invece siamo tentati di viverla come un luogo dove andiamo per prender posto, presi da noi stessi tanto da non accorgerci degli altri; o dove andare a tutti i costi, per assolvere un compito, ricoprire un determinato ruolo, a volte passando oltre se un tuo prossimo è in difficoltà ma in quel momento costituisce un intralcio.
Gesù ci ha messo in guardia dai tanti possibili comportamenti sbagliati, e ci ha ricordato che "la mia casa sarà chiamata casa di preghiera ma voi ne fate una spelonca di ladri".
Ha denunciato con forza l'incongruenza e vanità di alcuni atteggiamenti, svelando l'ipocrisia che ci fa rinnegare ciò che più conta rispetto alle pratiche esteriori, e cioè "la giustizia, la misericordia e la fedeltà". Questo tanto più se il danno ricade anche indirettamente su chi è piccolo, o in difficoltà o nella prova, e anche su chi è ancora lontano e ha bisogno più di noi.
Quando Gesù parla agli scribi e farisei è molto duro e le sue parole fanno riflettere su noi stessi al fine di vigilare affinchè fuori e dentro la casa di preghiera non si debba voltare le spalle alle persone, tradire i valori umani e cristiani: ad esempio la lealtà e fedeltà nell'amicizia, o la fiducia, per una volontà di autoaffermazione. In questo viene meno la semplicità di un comportamento più giusto che deriva dall'obbedienza a chi sta sopra di noi, il Signore e poi il pastore suo ministro, anche dove significa accettare qualcosa di diverso rispetto a quello che si aveva pensato e si vorrebbe per se stessi.
La lezione di Gesù e di chi ci insegna a seguirlo volendogli bene, è però sempre questa: "rinnegare, perdere, portare", cioè rinnegare se stessi, perdere la propria vita, portare la croce ogni giorno. Spesso non è facile ma speriamo di riuscire almeno un po' in questo con l'aiuto di Gesù e Maria.

Gabriella Gattolin, Giovanni, Francesco e Raffaele Spezia


"La domenica dell'abito adatto" (di padre Valter ARRIGONI)

Nella prima lettura il profeta Isaia comunica al popolo di Israele che la salvezza di YHWH è per tutte le genti, anche per i pagani, per gli altri che non appartengono al popolo santo. A noi può sembrare scontato ma per un pio israelita non lo era affatto. Coloro che non appartenevano al popolo eletto erano con disprezzo definiti “gojm”, le genti, i non ebrei. La vecchia traduzione della Scrittura traduceva i “gentili”, evidentemente non era questione di buona o cattiva educazione ma di appartenenza alle “genti”. I gojm erano impuri e per questo anche il semplice contatto con loro, anche involontario, era peccato, contagiava del male, tagliava fuori dalla salvezza. Tornando dal mercato o semplicemente dall’essere stati fuori casa, i pii israeliti, i farisei osservanti, si lavavano le mani, le braccia fino al gomito (il resto era coperto dalla tunica), i piedi, per purificarsi perché potevano aver toccato qualcuno o qualcosa di impuro. Ma che cosa ci fa appartenere a Dio? L’essere nati in una determinata religione? L’aver ricevuto in eredità quasi come il cognome, la lingua, la patria senza nessuna cosciente adesione? Le letture di queste ultime domeniche che la Chiesa ci ha offerto parlavano di una vigna che è Israele, la Chiesa, l’anima del fedele e finiscono con Gesù che dice: “Perciò io vi dico:vi sarà tolto il regno di Dio (modo ebraico per indicare Dio stesso, l’innominabile) e sarà dato ad un altro popolo che lo farà fruttificare”. Lo stesso Isaia ci diceva quello che ha fatto soffrire Dio e lo ha spinto a togliere la sua benevola benedizione al suo popolo: “Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”. Essere di Dio, appartenere a Lui, essere, e non solo dirsi, fedeli, credenti, è dare a Dio ciò che Lui vuole. Si tratta cioè di una adesione libera e decisa. Il nostro essere fragili, peccatori, feriti dal peccato, ci porta talora a percorre vie che ci allontanano da Dio. Sentieri che ci portano a fare il male. A commettere peccati. Il testo di Isaia richiama anche noi, il nuovo popolo di Dio, i fratelli di Gesù, i salvati e redenti dal suo sangue sulla croce a riflettere sul fatto il Signore Gesù è la salvezza di ogni uomo. Di coloro che sono venuti prima di Lui. Di coloro che non lo hanno conosciuto. Il banchetto che viene preparato sul monte della città santa (resa santa non dalla costruzione del Tempio ma dalla presenza di Dio, del suo Figlio Gesù e dello Spirito di Amore) è apparecchiato per tutti. Il banchetto, che per i Padri della Chiesa, è l’eucaristia, il vero corpo e sangue di Gesù, è Gesù stesso che si offre ad ogni uomo. Tutti i popoli, tutti gli esseri umani, ognuno di noi è salvo e chiamato da Dio. convocato. Ogni uomo può vedere Dio faccia a faccia. “Sarà tolto il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre che copriva tutte le genti”. Il ricordo corre al racconto della morte di Gesù, momento nel quale si squarcia il velo del Tempio. In Gesù il volto del Padre si svela (toglie il velo). Non è più un Dio lontano e sconosciuto, quasi irraggiungibile. Si è fatto uomo perché ogni uomo o possa vedere, riconoscere e dire di appartenergli. Ancora una volta Isaia ci invita ad esultare. Domenica scorsa l’invito era a cantare, oggi ad esultare. E ne abbiamo ben donde. Siamo salvati da Dio stesso. La morte, il peccato, il male sono sconfitti dalla volontà compassionevole di Dio.
Ma c’è una condizione!
Ogni dono di Dio non ci viene imposto ma è sotto la condizione della libertà. Non sono suo per caso ma perché lo voglio.
E’ il senso della parabola che chiude questo ciclo sul Regno di Dio e su quali sono i fondamenti di questo Regno. Anzitutto sulla misericordia. Tre parabole dove si parlava della vigna di Dio che abbiamo chiarito che è un modo per intendere Israele (gli abitanti di Giuda), la Chiesa che è il nuovo popolo di Dio, l’anima di ciascuno di noi al quale è rivolta questa Parola che deve essere ascoltata, capita, amata, messa in atto. Nella prima parabola Gesù ci dice che la salvezza (il salario), il paradiso è aperto a tutti, anche a chi arriva all’ultima ora. Per chi ha cominciato a lavorare fin dall’inizio della vita il premio è già qui, ora, in questo mondo ed in questa vita ed è la gioia di lavorare per Dio. nella seconda domenica Gesù ci narra di due fratelli, uno che dice ed uno che fa. Chiarisce, definisce, che la volontà del Padre suo e nostro non va detta a parole ma fatta, compiuta nei gesti, negli atti, nelle scelte. Taci e fai! La terza domenica della vigna Gesù parla di se stesso come del Figlio mandato dal Padre a riscuotere l’affitto. Viene il momento di quello che i latini chiamavano il “redde rationem”. Dio ci ha affidato il mondo cosa ne abbiamo fatto? Dio ci ha affidato ogni uomo come lo abbiamo accolto? Dio si è consegnato nelle nostre mani come lo abbiamo trattato? Viene il momento per tutti nel quale ci dobbiamo mettere di fronte con verità, anche cruda, adulta, senza veli né parole illusorie, la nostra vita e tutto quello che ne fa parte (tempo, soldi, lavoro, famiglia, persone …)e rispondere se siamo anche noi come i vignaioli omicidi. Se abbiamo anche noi ucciso il figlio portandolo fuori dalla nostra vigna, dalla nostra vita, per impadronirci di tutto tagliando fuori Dio. Se ci siamo uccisi, siamo suicidi. Il Papa diceva proprio settimana scorsa che un uomo senza Dio è morto, non vive.
Per fortuna la parabola dei vignaioli omicidi è una bugia che Gesù che dice per scuoterci. Nella realtà non ha fatto quello che lì dice. Non ha ucciso tutti ma è morto lui per noi.
Oggi però pone una condizione per la nostra salvezza. L’unica condizione che dipende totalmente, solamente, da ciascuno di noi: la mia personale, libera, totale, radicale adesione al suo progetto. La veste dell’uomo clandestinamente entrato al banchetto è la sua adesione, la sua volontà, la sua libertà, la scelta fondamentale della sua vita.
Altrimenti non sarebbe comprensibile questa parabola.
Ancora una volta c’è un re, Dio, il Re dell’universo, il Signore dei Signori. In altre parabole si usa l’immagine del padrone della vigna, del ricco commerciante, del signore della casa con i suoi servi. Ancora una volta c’è un progetto di gioia e di salvezza al quale sono invitati i suoi amici. Simboleggiati dai vari protagonisti delle parabole che ci siamo sentito dire: il figlio maggiore che dice di sì e poi non fa; gli operai della prima ora che sono invidiosi e gelosi; i vignaioli che uccidono i servi- profeti e il figlio- Gesù. Tutti questi protagonisti come gli invitati al banchetto di nozze sono il popolo di Israele che ha rifiutato Gesù. Allora il Re chiama gli altri al suo banchetto. Gli esclusi, quelli che si pensava non fossero compresi nel piano di salvezza di YHWH. “Andate ai crocicchi delle strade e prendete tutti quelli che troverete”. Tutti, presi nella loro attività ordinaria. Tutti senza che se lo aspettassero. Così come erano. Allora perché il Re si arrabbia quando ne vede uno senza l’abito nuziale. Certamente nessuno era in giro quel giorno per le strade vestito per andare a nozze. L’invito è gratuito ma soprattutto a sorpresa, assolutamente inatteso. Ci coglie (perché quegli invitati al banchetto di nozze siamo noi!)impreparati!. Oppure no? Cosa significa l’abito. Cosa ci è chiesto per entrare alle nozze. Cosa ci è chiesto per salvarci? In paradiso chi entra? L’abito che Dio vede non è quello che indossiamo sopra di noi, non è ciò che si vede fuori ma è quello che siamo dentro. Dio, ci insegna Samuele, non guarda ciò che guardano gli uomini ma vede il cuore di ogni uomo, legge dentro. L’abito nuziale, l’abito adatto per entrare al banchetto di nozze, per essere salvati, per entrare in paradiso è la nostra coscienza. E nella nostra coscienza il desiderio di Dio. Il riconoscimento umile dei nostri peccati e del bisogno di essere salvati. La libera adesione alla volontà che Dio ha di salvarci. La tradizione usa il termine “conversione”. Riconosco di camminare su una sentiero sbagliato, che mi allontana dal Padre mio e voglio tornare a lui. Nella mia fragilità, della quale sono cosciente e ne chiedo perdono, so quanto è difficile ma Dio è con me. L’ospite inadatto è colui che si trova per caso nella sala senza volerlo, senza adesione libera, totale, personale. Fuor di metafora è come se uno fosse cattolico solo perché è nato in Italia e, per caso, per la volontà di altri, è stato battezzato senza mai però accettare e vivere le conseguenze di questo battesimo. Senza mai appartenere coscientemente a Dio ed alla sua Chiesa. È entrato nella sala perché sono entrati anche gli altri ma il suo cuore, la sua veste, la sua coscienza sono altrove, sono fuori da lì. Possiamo anche essere preti, suore, eremiti, catechisti, insegnanti di religione. Possiamo anche essere dei genitori che hanno costretto i figli al catechismo ed ai sacramenti ma anche a noi può accadere quello che è successo a quell’uomo. Dio entra in noi e non si ritrova. Diciamo, parliamo, ma non siamo. Neppure lontanamente vogliamo aprire a Dio, farlo entrare. Essere suoi. Il giudizio al quale siamo chiamati è su chi siamo veramente, sulle opere che compiamo, sulla nostra anima, sul cuore, sulla vita, sulla volontà, sulle azioni.

martedì 11 novembre 2008

"Niente è mio" (di padre Valter ARRIGONI)

(Meditazione sul Vangelo della XXXiii settimana)
Il vangelo di questa Domenica continua il tema del giudizio finale iniziato che ci accompagna in questa fine anno. E’ il mese di novembre, tradizionalmente dedicato alla riflessione sulla morte. Nei cimiteri ( in greco koimeterion significa dormitorio, i morti sono coloro che dormono il sonno della pace) molte tombe, che nel resto dell’anno sono dimenticate, quasi in uno stato di abbandono con i loro fiori secchi e marci, con la cera colata e seccata di lumini spenti e mai sostituiti per un anno, adesso sono ricche di fiori freschi, di lumini accesi con il volto di padre Pio in bella vista. Non perché ci si ricordi dei defunti (“chi è morto giace e chi è vivo si da pace”) ma per far vedere ai vicini una ostentazione di cose che copre il vuoto del ricordo e dell’affetto. Ho visto tombe sepolte sotto mazzi di fiori, ceri dalle forme più svariate, addirittura oggetti come li mettevano i pagani nelle tombe dei guerrieri o delle dame. Come si usava fare in Egitto e nelle culture antiche.
Il ricordo dei morti ci porta a riflettere anche sulla nostra morte. E la morte è l’altra parte della vita così come la notte è per metà del giorno che finisce ma per l’altra metà del giorno che inizia, del nuovo giorno. Anche la fine dell’anno liturgico porta la Chiesa e la Chiesa porta noi a meditare sul giudizio finale. Sul fatto che dovremo riconsegnare ciò che ci è stato affidato ma non è nostro.
Il Vangelo di Matteo, che come abbiamo spesso ricordato è un ebreo, che pensa da ebreo e che ha come riferimento culturale e religioso il mondo ebraico è diviso in cinque libri (il Pentateuco i primi cinque libri della Bibbia e per alcuni ebrei l’unica Bibbia) a loro volta divisi in due parti: i discorsi di Gesù ed i fatti del Signore (apoftegmata kai pragmata). Dio prima dice e poi realizza ciò che dice. Come accade anche nella Messa dove prima c’è la liturgia della Parola e poi il fatto, la liturgia eucaristica. Quello che inizia con il capitolo XXV è il discorso escatologico cioè che ha per argomento le cose finali, le ultime realtà. Dopo la morte del singolo secondo la teologia cattolica c’è un giudizio parziale in conseguenza del quale possiamo andare in Purgatorio. Un tempo che ci purifica, ci educa a vedere Dio, come Dio. quasi un tempo donatoci dopo la morte nel quale prepararci alla salvezza. Alla fine del tempo e del mondo ci sarà il giudizio universale dopo il quale non esisterà più il Purgatorio, non ci saranno che l’inferno (forse vuoto!) ed il Paradiso. Nel capitolo XXV di Matteo ci sono tre racconti: delle vergini sagge e delle vergini stolte, che è più giusto chiamare dello sposo che arriva all’improvviso; la parabola dei talenti, che è quella sulla quale ci fermiamo a riflettere in questa penultima domenica del tempo ordinario ed infine la descrizione del giudizio universale, che sarà il Vangelo della festa di Cristo Re.
Qualche giorno fa, il venerdì della XXXI settimana, abbiamo ascoltato la parabola dell’amministratore disonesto. Raccontava di un amministratore che era stato accusato di sperperare i beni del padrone e per questo veniva licenziato. Allora furbamente chiama i debitori del padrone e riduce il loro debito creando così con loro un rapporto di gratitudine che lo aiuterà quando sarà senza lavoro. Gesù finisce il discorso lodando l’astuzia dell’amministratore disonesto. Molti sono rimasti quasi scandalizzati al sentire questa finale. Ma se la capiamo come un invito ad usare nelle cose di Dio la stessa furbizia, abilità, scaltrezza che mettiamo nelle cose del mondo. Se fossimo nelle cose di Dio (Parola, Sacramenti, Carità ...) adulti e bravi come lo siamo con i soldi, il lavoro, la carriera, gli investimenti, gli acquisti! Invece sembra che più diventiamo adulti più siamo lontani da Gesù. Relegato a qualcosa della nostra infanzia. Pochi sono cresciuti nella fede come sono diventati adulti, magari di successo, nelle cose del mondo! Ma di questa parabola sottolineo il ripetersi sette volte del termine amministratore, amministrare, amministrazione. Introduce alla parabola di oggi che inizia raccontando di un uomo che partendo per un viaggio chiama i suoi servi (dieci, come le vergini, nel racconto parallelo di Luca: dieci che significa tutti gli uomini, buoni e cattivi) ed affida loro “i suoi beni”.
La vita, il mondo, le persone che incontriamo, le cose. Gli animali, la natura, l’aria, l’acqua, tutto quello che è creato e che io vedo e tocco appartiene al Signore, è suo bene. Io sono solo l’amministratore ed un giorno il Signore torna, all’improvviso come è accaduto per lo sposo della parabola delle vergini, e mi chiede che cosa ne ho fatto dei suoi beni. Le domande che questa parabola mi pone e che sottopongo a ciascuno di voi sono: quali sono i beni di cui sono responsabile? Quale è il bene più prezioso? Per chi sono responsabile oltre che per il Signore? Quali sono i miei talenti cioè gli strumenti che Dio mi ha donato e dei quali dovrò rendere conto soprattutto per come li ho usati nel custodire “i suoi beni”?
I suoi beni che mi sono affidati li ho scritti prima. Dice un proverbio indiano che il mondo non lo riceviamo in eredità da chi è venuto prima di noi ma che lo abbiamo in consegna per chi verrà dopo di noi. L’ecologismo, la giustizia, il mondo intero non sono l’interesse di pochi ma il cuore di tutti. La lotta contro l’inquinamento, e a Foggia e provincia ne sappiamo qualcosa (anche se da qualche tempo tutto tace !!!! forse il denaro, tantissimo, compra anche le istituzioni e la verità, la libertà?)non è di pochi anarchici ma di tutti perché tutti respiriamo, beviamo, mangiamo e ci troviamo col cancro. Ma non solo le cose mi sono affidate, soprattutto le persone. Domenica scorsa Paolo ai Corinzi diceva che ogni persona, ogni corpo umano è tempio di Dio e dimora dello Spirito Santo, “chi distrugge il Tempio di Dio, Dio distruggerà lui”. Si distrugge il Tempio quando si rende una persona schiava, quando non si rende giustizia, quando si mette a lavorare in nero, quando si costringe alla prostituzione, quando non si lotta per la giustizia per tutti, quando si considera qualcuno un essere inferiore, quando si usa violenza, quando cioè l’altro è una cosa da usare e non il tabernacolo di Dio, immagine e somiglianza dell’Altissimo.
Il bene più grande è Dio stesso, la fonte della vita, Colui dal quale tutto deriva la sua esistenza. L’origine dell’uomo e della sua dignità. Io ne sono responsabile. Nella preghiera del Padre nostro noi diciamo “sia santificato il tuo Nome” che significa che attraverso di me ogni uomo (anche il più sofferente e lontano) sappia che Tu (il Nome è la persona, in questo caso Dio stesso) sei il Santo. Sono responsabile di Dio, lo devo far conoscere, lo devo testimoniare, devo portare a Lui tutti gli uomini che incontro. Devo essere la via verso Dio e di Dio verso gli uomini. Allora è chiaro che sono responsabile (devo rispondere) non solo a Dio ma a tutti i miei fratelli e le mie sorelle se non ho portato Dio a loro e loro a Dio. Se li ho fatti restare fermi e non li ho fatti camminare. Se invece di insegnare loro a pregare li ho fermati alla recita di rosari e devozioni senza mai far incontrare loro il gusto ed il piacere dell’ascolto della Parola. Di una preghiera che è silenzioso ascolto e non tante parole dette con la testa d un’altra parte.
Il talento è la particolare bravura che Dio ha donato ad ogni uomo mettendolo nella vita. io personalmente ho il talento della parola, altri quello dell’ascolto, dell’organizzare, del fare affari, della prudenza, dell’insegnare, dello scrivere, del suonare, della bellezza, del sapere ... ognuno deve, questa volta il verbo è proprio dovere, sapere e conoscere il suo dono. Ci verrà chiesto come abbiamo usato questo dono per Dio e per i nostri fratelli. Domenica scorsa Gesù ci ha detto che ci sarà il momento del giudizio, del rendiconto oggi ci dice su che cosa saremo giudicati: chi e ciò che ci è stato affidato, che abbiamo dovuto amministrare. Neppure la mia vita è mia! La vita la renderò vissuta, usata, utile oppure morta e sepolta come il talento del servo “pigro” o meglio del servo che ha pensato solo a se stesso, ai suoi comodi, al suo benessere. Anche nella chiesa ci sono persone che non hanno a cuore il bene degli altri, neppure quello di Dio ma solo il proprio quieto vivere ed il proprio benessere. Non voglio più essere uno di questi. Anche io per non urtare sensibilità, per non dare fastidio, per non essere sempre l’eterno polemico fastidioso, per non essere sempre giudicato e condannato ho taciuto, mi sono seduto, non ho fatto quello che dovevo e mi era richiesto. Adesso basta!

venerdì 7 novembre 2008

"Di chi siamo?" (di padre Valter ARRIGONI)


YHWH dice al re dei persiani, Ciro, un pagano, il re di coloro che tenevano gli ebrei schiavi: “Io ti ho chiamato per nome, ti ho dato un titolo sebbene tu non mi conosca. Io sono il Signore … ti renderò spedito nell’agire, anche se tu non mi conosci”. C’è un solo Dio e Signore e tutti gli altri titoli con i quali son chiamati gli dei sono solo dei nomi che l’uomo nei secoli e nei diversi luoghi ha dato all’Essere supremo. Avere una divinità è una necessità dell’essere umano. Avere valori eterni, speranza eterna, Qualcuno con il quale confidarsi, parlare, Qualcuno da pregare. Non può vivere l’uomo, nessun uomo, senza Dio. Dio è padre, creatore, Signore di ogni uomo, di tutti gli uomini. Questa Parola che ci viene detta attraverso il profeta Isaia oggi ci invita a riconoscere in ogni essere umano un nostro fratello perché ogni essere umano ha Dio come Padre e creatore. Ma la Parola del profeta ci invita a fare molto di più. Ci indica una via di crescita spirituale, uno stile, un modo di vivere e di affrontare la vita che è quello di riconoscere in tutto ed in tutti uno strumento del quale Dio si serve per attuare il suo piano nella storia universale e nella storia della vita di ciascuno di noi. Giovanni Paolo II diceva: “Dio scrive dritto anche sulle righe storte della nostra vita”. saper riconoscere al fondo di noi stessi e di ciò che ci accade il piano di Dio. Saper leggere il positivo della storia che Dio costruisce con noi giorno dopo giorno. Perché la storia di Dio e con Dio è una storia di salvezza. È la storia della sua fedeltà all’alleanza che ha fatto con ognuno di noi fin da quando eravamo nel grembo della nostra madre. L’alleanza di Dio è per noi una benedizione. Saper cogliere la positività dentro le vicende non è solo un esercizio di igiene mentale, non è uno sforzo menzognero dettato dal non voler soffrire e star male ma è saper leggere la presenza di Dio il quale parla spesso con la “sottile voce dl silenzio”. Ci sembra che non ci sia, che non si ricordi di noi, anzi addirittura che ci volga le spalle in certi periodi, anche lunghi, della nostra vita. eppure Dio non solo c’è ma opera, realizza il suo piano. Ed il suo è un piano di amore che ha la centro la nostra felicità. La nostra gioia, il nostro paradiso. Certamente gli ebrei che si trovavano in Babilonia, sconfitti e deportati dai Babilonesi che poi lasciarono il comando agli Assiri che vennero Soppiantati dai Persiani (che poi cadranno con Dario nelle mani di Alessandro Magno) erano resi ciechi e disperati dalla loro situazione di schiavitù. Si lamentavano con YHWH che li aveva dimenticati, che aveva lasciato che altri popoli, con altri dei, mettessero i piedi sulle loro teste. “E come potevamo noi cantare i canti di Sion con il piede straniero sopra il cuore? Con i morti abbandonati nelle piazze? Alle fronde dei salici, per voto, anche le nostre cetre erano appese!”, è la meravigliosa traduzione che Quasimodo ci offre di un salmo che veniva cantato dagli israeliti deportati. Quasimodo traduce questo salmo pensando agli ebrei deportati nei lager nazisti. Altro momento, lungo periodo della storia, nel quale è difficile- impossibile- saper vedere il piano salvifico di YHWH. Eppure anche in quegli anni Dio era presente, teneramente e pieno di amore e di misericordia, accanto ad ognuno dei suoi figli che soffriva e moriva.
Il re Ciro viene chiamato da YHWH, nel libro del profeta Isaia, nel brano che leggiamo:”eletto”. Nel testo ebraico troviamo una parola importantissima MESSIA. Ciro è un Messia cioè uno che diventa strumento della volontà di Dio. Messia come Gesù Cristo (Cristo è messia detto in greco). Questo brano ci introduce al Vangelo. Ancora una volta siamo in un clima polemico, ostile. Ormai sono finite le parabole della misericordia, della vigna del Signore e siamo entrati nella parte nella quale il Vangelo di Matteo ci presenta dei fatti, delle vicende. Stiamo avvicinandoci alla Passione di Gesù. Il brano del Vangelo inizia con i Farisei che, stanchi di essere umiliati e zittiti da Gesù davanti alla gente, si riuniscono “per coglierlo in fallo nei suoi discorsi”. Mandano da lui gli erodiani. Sono quelli del partito di Erode, filo romani. Se Gesù avesse risposto, come i farisei si aspettavano, con una risposta anti romana, di condanna dell’imperatore, di incitazione a non pagare le tasse all’oppressore, gli erodiani sarebbero corsi dall’autorità romana a denunciare Gesù che sarebbe stato condannato. Ma Gesù approfitta della subdola domanda dei farisei per darci un insegnamento. Lo stesso del profeta Isaia. “Dare a Cesare quel che è di Cesare ed a Dio quel che è di Dio”. Riconoscere che Dio è al di sopra di Cesare, che si serve anche dell’imperatore pagano dei romani,per realizzare la sua storia. San Pietro nella sua prima lettera scrive: “Siate sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni ... state soggetti con profondo rispetto ai vostri padroni, non solo a quelli buoni e miti, ma anche a quelli difficili”.
Sant’Agostino nel commentare questo Vangelo scrive: “Come Cesare cerca la propria immagine su una moneta così Dio cerca la propria nella tua anima. Il salvatore dice: Rendi a Cesare quel che è di Cesare. Che cosa vuole da te Cesare? La sua immagine. Che cosa vuole da te il Signore? La sua immagine. Ma l’immagine di Cesare è scolpita su una moneta, mentre l’immagine di Dio è dentro di te. Se la perdita di una moneta ti rattrista a maggior ragione dovrebbe frati piangere l’aver disprezzato l’immagine di Dio che è in te”. Ed io aggiungo in questi tempi di razzismo violento che troppo spesso violentiamo, bestemmiamo, l’immagine di Dio che è in ogni uomo. Ed in questa città dove è diffuso il lavoro in nero ed una forma di schiavitù in molte campagne. E l’usura. Ed il violento abuso di quella che dovrebbe essere la giustizia. Siamo spesso di fronte allo sfregiare il volto di Dio. Siamo spesso spettatori di torti, di violenze, di abusi, che bestemmiano Dio nel maltrattare gli esseri umani, soprattutto i piccoli, i poveri, gli indifesi. Coloro che non sanno parlare, far valere le proprie ragioni. Coloro che sono costretti a cedere davanti al potente di turno.
Un testo della comunità cristiana del primo secolo, dal titolo “lettera a Diogneto” diceva: “come l’anima è per il corpo così il cristiano e la chiesa sono per il mondo”.
La nostra libertà ci deve rendere capaci di essere la coscienza che richiama al valore della vita umana, di ogni vita umana. Non possiamo per piaggeria o peggio ancora in cambio della moneta di Cesare tacere, fingere di non vedere, passare sopra certe situazioni scandalose. In cambio di soldi, di potere, di sicurezza, di privilegi. Lasciare che continui la Passione di Gesù nel mondo nel quale viviamo. Nella città dove abitiamo. Non importa chi sta al potere. Ogni potente, ogni vincitore di elezione, sindaco, presidente della provincia, della regione, parlamentare ... è chiamato a servire l’uomo. Se è credente è chiamato a servire Dio nel servizio dell’uomo. Se non lo fa. Se si lascia condizionare da logiche di potere, di raccomandazione, di corruzione, di latrocinio, dovrà renderne conto a Dio stesso. Ma guai a me se taccio! Allora sono complice! Muore il peccatore ma della sua morte verrà chiesto conto a me. Non importa chi comanda perché al di sopra di tutti c’è Dio,l’Altissimo, il Signore dei Signori, il Re dei re della terra.

Valter Arrigoni