martedì 22 luglio 2008

ENTRARE NEL CUORE DI DIO - (di Padre Valter ARRIGONI)


“Tu hai cura di tutte le cose … giudichi con mitezza … sei indulgente … hai insegnato che il giusto deve amare gli uomini … hai reso i tuoi figli pieni di dolce speranza perchè tu concedi dopo i peccati la possibilità di pentirsi”. Nella prima lettura di domenica, tratta dal libro della Sapienza, di Dio si afferma questo. Il salmo aggiunge: “grande tu sei e compi meraviglie … Dio di pietà, compassionevole, lento all’ira e pieno di amore, Dio fedele … abbi misericordia”.
Questa è la vera immagine di Dio, questo il suo cuore, questa la sua essenza: una compassione piena di amore per tutte le sue creature, soprattutto per l’uomo creato a sua immagine e somiglianza.
Nell’affermare che Dio concede dopo i peccati la possibilità di pentirsi è resa evidente la compassione con la quale il Padre ci guarda nella nostra ricerca della felicità, della gioia, della pace. Ricerca che talvolta ci porta su strade sbagliate. Ci illude di aver trovato la meta, di essere arrivati. Di poterci fermare e di poter restare lì per il resto della vita. Poi, drammaticamente, il paradiso svela il suo volto di inferno, dietro la maschera seducente si rivela il ghigno mostruoso della morte. Ciò che ci sembrava la meta, la felicità per sempre non è altro che un imbroglio. Allora il cuore compassionevole (nell’Antico Testamento si chiamano “le viscere di misericordia”, “l’utero di Dio”) si volge su di noi non per condannarci, per punirci, per castigarci ma per rimetterci nel cammino della vita. Dio ci fa continuare la nostra ricerca nella quale faremo ancora degli errori,delle cadute, dei “peccati”. Agostino, vescovo di Ippona, diceva con una frase scultorea, e vera nella sua brevità, “il mio cuore è inquieto finché non trova in te il suo riposo”. Il peccato, prima che essere visto dal Padre come una offesa alla sua grandezza, è visto con compassione, con dolore, come la morte del figlio amato. Ricordiamo le parole del padre del figliol prodigo, nel quale Gesù ci rivela il volto del Padre suo, quando il giovane torna a casa:”questo mio figlio che era morto, è tornato in vita”. Non lo rimprovera di lesa maestà verso l’autorità paterna. Non gli chiede neppure di scontare una pena per il male che ha fatto. Perché peccando il male lo si fa a stessi, ci si uccide, si rovina la propria vita.
“Tu, o Signore che sei nell’intimo di te stesso compassione, ridammi vita. Ridammi il tempo della ricerca. Donami un cuore capace di essere inquieto, insoddisfatto finchè non trovi in te la sua pace”.
Perché il rischio è proprio questo: che ci accontentiamo di qualcosa che abbiamo e ci sentiamo in pace, soddisfatti. Addormentiamo il desiderio in noi. Il nostro spirito di ricerca. La nostra voglia di verità. Quello che Dante Alighieri, nella sua Divina Commedia, faceva dire ad Ulisse, scelto come esempio più alto dell’umanità alla continua ricerca dl senso della vita, delle cose, di tutto: “nati non fummo per viver come bruti, ma per seguire virtute e conoscenza”. attraverso la nostra vita, la nostra intelligenza, le esperienze, la riflessione arrivare a Dio, senso, ragione di tutto.
Il rischio però è quello di fermarsi una volta soddisfatta una parte di noi stessi. La pancia, la tasca, il sesso, la voglia di primeggiare, il desiderio di vendetta.
Il rischio che per quasi tutta l’umanità occidentale è la realtà è di pensare che le cose saziano il cuore, fra le cose ci sono anche le persone usate per il proprio io affamato e mai sazio.
Lo chiamiamo il consumismo ma forse è più vero chiamarlo il suicidio collettivo. Basta guardare le nostre spiagge, le piazze, le vacanze. Basta guardare con occhio intelligente come la stragrande maggioranza delle persone ha progettato e vive il tempo del riposo. Ogni anno la stessa storia. Ogni anno le stesse lamentele. Ogni anno gli stessi errori nei quali ci ripromettiamo di non cadere mai più ed ogni anno rifacciamo le stesse scelte.
Per fortuna che c’è Dio che “concede, dopo il peccato, la possibilità di pentirsi”, e la concede all’infinito perché noi sbagliamo all’infinito.
Del Vangelo voglio sottolineare solo un aspetto che probabilmente viene poco notato: Dio ha creato il mondo bello e sufficiente per tutti gli uomini. “Il Regno dei cieli (Dio) si può paragonare ad un uomo che ha seminato il buon seme nel suo campo”. Il buon seme significa cha da Dio viene tutto e solo bene, il bene. Il campo è il mondo. Il buon seme sono tutte le cose che servono all’uomo. Ce n’è abbastanza per tutti. Venne però il suo nemico e sparse la zizzania, il male. Siamo abituati a pensare sempre al male come sesso, denaro, gola, potere, vendetta, ma c’è la radice del male ed è il pensare solo a se stessi. Questo mondo, creato per far star bene tutti, non basta neppure per far star bene me! Denaro, sesso, potere, vendetta sono le forme che nella vita di ognuno prende il male radicale, l’io famelico, insaziabile, divorante. Sempre Dante lo rappresenta come l’animale talmente affamato di cose che ad un certo punto diventa malvagio anche verso se stesso. Siamo noi! E’ il buco nell’ozono perché ormai non possiamo più fare a meno di ciò che lo provoca. Sono i rifiuti tossici, che uccidono, fanno venire il cancro, ma portano soldi, tanti soldi in poche tasche. E’ il grano, il mais che non servono più a dar da mangiare ai poveri ma soldi, come fonte di energia, ai proprietari terrieri.
Fermarsi a chiedersi cos’è la zizzania nella mia vita.
La tentazione è infatti pensare che la zizzania siano i cattivi, gli altri, alcuni malvagi. La zizzania ed il grano buono sono in noi, sono in me. L’esame di coscienza è su di me. Cosa è buono e cosa è cattivo in quel guazzabuglio che è il mio cuore? Cosa cresce nel campo che è la mia vita?
In questo tempo di grazia che mi è stato dato, in questi mesi da eremita, la sera soprattutto mi capita di fermarmi e piangere pensando al dolore dell’umanità, al dolore che l’uomo si infligge. Al viaggio della vita di moltissimi che non sanno né dove andare né che strada seguire.
Confesso che non piango sui miei peccati, sul male che ho fatto verso di Dio ed a me stesso ma sul bene che non ho fatto agli altri. Pensando al dolore, all’ingiustizia, alla miseria morale e materiale sono convinto di essere responsabile. Davanti a quello che J.P.Sartre chiamava “il disperato oggi della bestia (l’uomo senza speranza)” io conosco la speranza. Io conosco la meta e la strada. Io conosco, so, faccio esperienza del peccato, della mia fragilità e delle sue braccia che si tendono a sollevarmi ogni volta con tenerezza e compassione. Io lo so. Sono colpevole perché non l’ho detto, fatto vedere, fatto incontrare. Troppi attorno a me sono caduti morti nella loro vita e non hanno visto in me lo specchio del divino. Adesso basta! Non ho altro da dare. Non ho soldi, non ho cose, non ho potere né conoscenze, non ho altro che la vita, la mia vita, il mio cuore, il mio tempo. Tutto però riempito di Lui. Tornerò per darlo, solo per darlo a tutti. E se mi fermerò, stanco e deluso, vi prego, amici miei, richiamatemi, rialzatemi, risvegliatemi.
Ieri mi sono trovato fra le mani una poesia tratta da “Il libro d’ore” di Rayner Maria Rilke, ve la consegno come consegno me stesso. sono io:

“La mia vita la vivo in cerchi concentrici che si espandono
Che sulla cose si allargano.
Non saprò, forse, compiere l’estremo,
ma tenterò comunque.
Ruoto attorno a Dio, antichissima torre,
e da mille e mill’anni giro;
e non so ancora: un falco, un uragano, un canto immenso
sono”


Valter Maria Arrigoni

Nessun commento: